Buongiorno Aureliano

4. La piazzetta

Alberto lasciò il furgone al solito parcheggio, distante pochi metri dal negozio, e arrivò alla piazzetta dal lato dell’alimentari. Come faceva ogni mattino entrò da Cesare.

Il bar sfoggiava, ormai da qualche anno, l’altisonante insegna “Caffè La Piazzetta”, ma per tutti era rimasto il bar “da Cesare”, anche se Cesare lo si vedeva al massimo qualche ora il pomeriggio, a dare il cambio a suo figlio.

“ ’ngiorno Alberto, caffè?”

Alberto rispose con un occhiolino e un gesto della mano, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, Maurizio aveva già caricato il braccio della macchina con due colpi secchi del macinatore. Nell’aria le note dell’ennesima canzone sudamericana, rimasuglio dell’estate da poco trascorsa, un paio di vecchie signore prendevano un cappuccino al bancone, una coppia discuteva sottovoce, le labbra di lui incorniciate dallo zucchero di una ciambella. Su uno dei tavoli fuori, un uomo sfogliava il corriere dello sport.

Ormai sono rimasti solo i baristi e qualche anziano a comprare i giornali, pensò.

Con la tazzina ancora in mano, aspettando si freddasse un po’ il caffè, si avvicinò alla porta. L’uomo del giornale andò via e la copia del corriere, male ripiegata, rimase sul tavolo. Un angolo della prima pagina tremava, sollevato da una leggera brezza. Il giornale del bar a disposizione! era un’occasione più unica che rara. Alberto si avvicinò e lo aprì, cercando di riallinearne il più possibile le pagine.

A qualche metro davanti a lui, Alessandro era comparso sulla porta del suo nuovo “Raffinatezze”, lo salutò con la mano. Il negozio era venuto carino, pensò Alberto, ma anche quello sarebbe stato sempre l’ “Alimentari Da Giorgio”, anche se Giorgio, da quando erano iniziati i lavori di ristrutturazione, in negozio non si era più presentato, scomparso insieme al nome sull’insegna.

Maurizio, uscito anche lui dal bar, con uno straccio stava pulendo un tavolo di fianco a lui, recuperò una tazza vuota abbandonata, raddrizzò un paio di sedie.

Alberto lo vide e la scena gli riportò il ricordo di tanti anni prima, quando veniva al forno con suo padre, soprattutto in estate che non c’era scuola. Gran parte della mattina la passava così, da Cesare, a leggere il giornale davanti ad un pacchetto di patatine, a discutere con Maurizio e Alessandro del Milan o della Juve, e a giocare a biliardino. Da quanti anni era sparito il biliardino? Vuoi vedere che era successo quando era comparsa l’insegna? Non ci avrebbe giurato ma il sospetto era enorme.

“Mauri, ti ricordi quando eravamo piccoli e stavamo qui a parlare di calcio?”

“E come non me ricordo?” disse Maurizio senza interrompere il lavoro, “Non hai mai capito ‘n cazzo de pallone!”

Alberto rise.

Alcune cose non cambiano mai, ma servono solo a far risaltare quanto tutto sia poi diverso. 

“Beh, non è che non capisco”

“No, lascia perde’, Albe’. Tu non sai manco le regole!”

Non era il caso di andare avanti con quel discorso, e in fondo Maurizio non aveva tutti i torti. Anzi, con il passare degli anni l’interesse di Alberto per il calcio era andato sempre più scemando. Lasciò direttamente la tazzina all’amico, ripiegò per bene il giornale di cui non aveva letto nulla e osservò con soddisfazione il lavoro di riallineamento che aveva fatto. Salutò Maurizio e si avviò al forno. 

Margherita era alla cassa, Valeria serviva una cliente. Quella ragazzina le piaceva: seria, puntuale, gentile con tutti e sempre disponibile. Non era stato sempre così fortunato con le assunzioni, sperava durasse il più possibile. Tanti ragazzi dopo qualche mese lasciavano il lavoro mirando a qualcosa di diverso. In genere erano studenti universitari che dopo un po’ si rendevano conto di quanto fosse difficile studiare e lavorare contemporaneamente. Altri aveva dovuto mandarli via allo scadere della prova. In genere per mancanza di affidabilità: non si presentavano al lavoro all’ultimo momento o arrivavano troppo spesso in ritardo mettendo in difficoltà tutti.

Per Alberto era sempre una sofferenza comunicarglielo. Li chiamava un paio di giorni prima dello scadere e si prodigava in una serie di elogi e di scuse, cercando di non farli rimanere male. Qualcuno reagiva bene, anche se gli ultimi due giorni non si presentava al lavoro, ma questo Alberto lo metteva in conto. Altri li vedeva, che erano completamente mortificati e scossi, tanto che a qualcuno aveva pensato di concedere una seconda possibilità. Ma poi si tratteneva, lo aveva fatto una sola volta e dopo era stata ancora più dura. Soltanto un ragazzo aveva reagito davvero male, minacciando chissà quali azioni legali e accusandolo di non capire niente. Alberto a quella reazione si sentì ancora più sicuro di aver fatto la scelta giusta ma poi stette male tutto il giorno.

Salutò le due ragazze ed entrò nel laboratorio, Margherita lo raggiunse.

“È passato Alessandro a prendere il pane, ha detto che dopo deve parlarti.”

Alberto si allacciava il grembiule dietro la schiena

“Sembrava preoccupato” aggiunse.

“L’ho visto ora, dopo ci passo. Per il resto?”

“Per il resto tutto ok, Valeria è arrivata in anticipo come sempre e io sono riuscita a fare comunque colazione, ci ha pensato Domenico”

Alberto la guardò con aria interrogativa.

“Mi ha solo portato un cappuccino, andava in tribunale”

“Che hai deciso di fare con quel poveraccio?”

“Ma niente, cosa dovrei fare?”

La voce di Valeria li interruppe: “Alberto?”

Fu Margherita però a rispondere, rientrò in negozio, pensando ci fosse bisogno di aiuto. Ma dopo qualche secondo, Alberto si sentì chiamare di nuovo, stavolta proprio da Margherita.

“Alberto, è per te, ti cercano”.

Spazientito uscì dal laboratorio, pensando a qualche rappresentante che si era presentato senza appuntamento, poi, appena sulla porta, intento ancora a sbattere le mani sul grembiule per togliere almeno un po’ di farina, si bloccò, e per la seconda volta, a distanza di pochi minuti, la sua mente fu catapultata venti anni indietro nel tempo.

“Alberto?”

“Cleo!”

La sera Alberto avrebbe ripensato più volte a quella scena. Chissà perché se la immaginava al “rallenty”, come fosse in un film di terza categoria, un cinepanettone o uno di quei film demenziali: nuvole di farina che lo avvolgevano come nebbia, primo piano sulla faccia di lui, stupita. Poi stacco su di lei, musica romantica di sottofondo, inquadratura che parte dalle scarpe con tacco poi su a salire, le lunghe gambe, il vestito corto semplice ed elegante, e il sorriso raggiante. Nel film i due si sarebbero abbracciati e avrebbero scoperto che il loro amore non era mai finito e che entrambi non avevano fatto che aspettare questo momento da sempre! Li avremmo visti direttamente sul letto dopo aver fatto l’amore, lui con l’immancabile sigaretta, una gamba di lei che sbuca dalle lenzuola. E a concludere la solita frase: “Dov’eri finita, non ho mai smesso di amarti”

Non era andata così.

C’era la farina, c’era lei con lunghe gambe, vestitino e sorriso raggiante, c’era lui. Nessun abbraccio, nessun “non ti ho mai dimenticato”, e molto imbarazzo. 

“Come stai? Che ci fai a Borgovecchio?” aveva chiesto lui.

“Sono qui per lavoro” aveva risposto lei, “ho visto il forno e…”

“Sei passata a salutare, hai fatto bene”

Sorrisi imbarazzati. Sembrava non ci fosse altro da dire. In fondo non erano che due sconosciuti ormai. Si girò leggermente verso la porta del laboratorio e la indicò con la mano, stava per dirle che aveva molto da fare e che non aveva tempo, ma poi gli sembrò scortese, esitò.

Lei sembrava avere capito comunque le sue intenzioni, alzò le spalle senza parlare. In fondo non era che una visita di cortesia, pensava Alberto, ti ritrovi per caso a fare un salto nel passato, decidi di dare un’occhiata. La maggior parte delle volte si rimane delusi. Ora comprerà qualcosa che non le serve, tanto per dare un senso a tutto questo, e sparirà di nuovo. 

“Ti fermi per un po’ o…”

“Non credo”

“Beh, allora io ora ti saluto, scusami ma devo preparare…”  

“Caffè?”

Rimase per un attimo indeciso, guardò il laboratorio, poi Margherita che assisteva alla scena e che, con lo sguardo, lo minacciava di chissà quali torture se non avesse accettato l’invito.

“Caffè!”