Buongiorno Aureliano

12. Incertezze

dodicesima puntata
Foto di Hans Braxmeier da Pixabay

Alberto arrivò alla piazzetta quando mancava un solo minuto alle sedici, avrebbe aperto in ritardo. La conversazione con Domenico era andata per le lunghe e lo aveva scosso, si era sorpreso a pensare all’uomo come all’avvocato Roseo e questo lasciava intendere più di ogni altra cosa come l’argomento del loro colloquio non fosse stato quello dell’amore non corrisposto per Margherita.

Valeria lo aspettava seduta ad un tavolo del bar, di vedetta. Vedendolo si era subito alzata e aveva sorriso. Ricambiò salutandola con la mano, non era molto che lavorava al forno ma non c’era stata una volta che non l’avesse trovata già lì ad aspettarlo. Si scusò per l’ora e cominciò ad aprire. Sentiva il bisogno di parlare con Amr e con Margherita. Li avrebbe chiamati, e avrebbe chiesto loro di passare.

Non che avesse dubbi, ma parlare con i suoi amici lo avrebbe aiutato a schiarire un po’ le idee e a dare il giusto peso a quella proposta così inaspettata. Non avrebbe mai venduto il negozio di suo padre.

Aveva acceso tutte le luci, Valeria aveva indossato la sua divisa, come chiamava lei quella semplice magliettina bianca con il nome del forno sul petto. Era andato a sedersi dietro la cassa, dove c’era la poltroncina più comoda del negozio.

Con gesti automatici accese anche la radio, cercò con le dita il filo di un caricabatteria sempre penzolante sotto uno scaffale basso, e attaccò il telefono, quasi scarico già a quell’ora del pomeriggio. Si mise a cercare il nome della società di cui aveva parlato Domenico ma non ricordava più il nome esatto, uno di quei misteriosi acronimi che non significano nulla almeno fino a quando non hai a che fare con la cosa che essi indicano, o più spesso celano.

I cantieri avrebbero aperto entro un mese, forse due, e la strada che dal colle arrivava al centro commerciale, da subito dopo il castagno all’ingresso del grande parcheggio, avrebbe costeggiato un unico enorme centro residenziale. Borgovecchio avrebbe raddoppiato, o quasi, la popolazione residente e questo avrebbe significato un rilancio di tutte le attività commerciali.

Alberto, nell’apprendere questa notizia, era stato preso da una sensazione di malessere che non riusciva a spiegarsi con la ragione. In fondo non era una cattiva notizia, era il futuro che arrivava, e non era così terribile. Quando avevano iniziato a costruire il centro commerciale, ricordava, era stato peggio.

All’improvviso un paesino piccolo come Borgovecchio si era ritrovato catapultato in una dimensione diversa, a cui non tutti erano preparati. Lui non aveva mai deciso se fosse stato un bene o un male, ma non gli era stato facile digerire la striscia di asfalto che aveva trasformato il suo personale “far west” di ragazzino in uno svincolo stradale. Alla fine, era sopravvissuto persino a quelle panchine di cemento all’ombra del suo castagno. Poteva sopportare qualsiasi rivoluzione urbana.

I gruppi di ragazzi avevano spostato il loro baricentro dalla piazza della chiesa alla galleria del centro commerciale, dove arrivavano centinaia di persone dai paesi vicini e persino dalla città.

Poi ogni paese aveva avuto il suo, di centro commerciale, e nessuno era venuto più a Borgovecchio. Era iniziato un lento declino che lasciava scontenti tutti: i vecchi, perché “non era più come una volta”, e i giovani che temevano si ritornasse esattamente “a come era una volta”.

Alberto aveva deciso che avrebbe indagato con calma su quel senso di malessere, ma l’avvocato Roseo non aveva finito, la notizia più forte doveva ancora arrivare. Una banca, che lui rappresentava e che era legata in qualche modo a questa faccenda del centro residenziale, aveva intenzione di aprire una filiale al centro di Borgovecchio e aveva individuato una possibile sede proprio nella piazzetta, nei locali del forno e dell’alimentari “da Giorgio”.

“Raffinatezze”, aveva detto d’istinto Alberto.

“Raffinatezze”, aveva concesso l’avvocato.

“Questa sera andrò a parlare anche con Alessandro di questo. In maniera informale, come ho fatto con te. Ti prego, se puoi, di non anticipargli nulla. Poi nei prossimi giorni vi darò un appuntamento per farvi una proposta ufficiale che ancora non è pronta ma che vi assicuro sarà molto vantaggiosa.”

  Alberto aveva sorriso incredulo. Aveva ripensato ai discorsi fatti con Alessandro proprio quella mattina e si era domandato cosa avrebbe fatto il suo amico, così preso a salvare e rilanciare la sua attività.

Compreso nell’offerta c’era anche un contratto vantaggioso con il centro commerciale, che sarebbe stato rilevato da un’altra società collegata, per l’affitto di due locali adatti alle loro attività.

Quel nome non arrivava, posò il telefono sullo scaffale basso, accanto alla presa a cui era attaccato a caricare, e si alzò. Non c’erano clienti ancora, Valeria ne approfittava per riordinare un po’ l’esposizione e fare posto alle teglie di pizza che a breve Alberto avrebbe sfornato.

Prima di indossare il grembiule e di cominciare a lavorare gli impasti, uscì per un momento in strada, quasi sentisse bisogno di aria. Fece qualche passo nella piazzetta, poi si girò a guardare le vetrine con l’insegna ancora spenta, a quell’ora del pomeriggio.

Girò un poco lo sguardo a sinistra, le eleganti tendine da sole di Raffinatezze erano ancora aperte e proiettavano la loro ombra obliqua sulle vetrine dell’ingresso. Non gli era mai piaciuto quel nome, ma Alessandro ne era così entusiasta che non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo. Solo una volta, quando ancora era soltanto un’idea nella testa dell’amico, Alberto aveva storto un po’ la bocca ad immaginare il nuovo nome scritto sulle tende o sulle vetrine. Alessandro se n’era accorto e aveva tagliato corto: “ma che capisci tu, di queste cose!”

Per un attimo ebbe la tentazione di andare a dirgli dell’incontro e della proposta che a breve sarebbe arrivata anche a lui. Poi rinunciò ripensando alla richiesta che gli aveva fatto Domenico di non anticipare nulla. In fondo era meglio così, avrebbe avuto un po’ di tempo per riflettere da solo sulla proposta. Prima di prendere una decisione insieme.

Tornò dentro, infilò il grembiule e passò dietro, nel laboratorio. Cercava tra le macchine ricordi di suo padre. Lui, Bruno, avrebbe saputo cosa fare. Mentre lui, Alberto, era già pieno di dubbi. Quando Domenico gli aveva accennato la cosa a lui era scappata una risata di scherno. Lo aveva guardato per capire se non stesse scherzando, poi incontrando lo sguardo serio di lui aveva abbassato gli occhi e aveva cominciato a giocare con la tazzina vuota del caffè.

“Non devi rispondermi adesso, hai tutto il tempo”, aveva detto. Poi aveva cominciato ad accennare a qualche particolare, ad illustrare quelli che secondo lui sarebbero stati i vantaggi.

“Non stai chiudendo l’attività, la spostiamo soltanto in un punto dove aumenterai la clientela”.

Aveva detto proprio così, “La spostiamo”, come se fosse anche la sua. Gli era più simpatico quando balbettava di fronte a Margherita.

Ancora fermo sulla porta osservava il laboratorio. Il forno lo avevano comprato insieme. Suo padre, che borbottava per il costo di una capsula di caffè, non aveva battuto ciglio a sentire la cifra che avrebbero speso a lavoro finito. “E’ un gran forno”, aveva detto, “si ripaga da solo.” Erano andati fino a Verona, direttamente alla fabbrica, secondo Bruno era lì che facevano i forni migliori. Poi erano entrati in una pasticceria e avevano festeggiato. Ricordava ancora l’enorme, densa goccia di crema che era caduta sulla manica del giaccone di suo padre e l’espressione di puro terrore che avevano avuto entrambi pensando a cosa avrebbe detto la madre. Subito dopo avevano riso entrambi. Bruno aveva tolto la crema con un tovagliolino ma l’alone scuro era rimasto.

Anche le impastatrici c’erano da sempre, solo la spezzatrice era nuova. Ma se anche fosse, aveva pensato, avrebbe portato tutto nel nuovo laboratorio. Già la sicurezza di poco prima aveva cominciato ad incrinarsi.

Tornò dietro la cassa e mandò un messaggio a Margherita, con Amr avrebbe parlato la notte.

“Ce la fai a passare un momento?” scrisse. Poi, pensando che si sarebbe preoccupata per la richiesta insolita aggiunse: “mi serve soltanto un consiglio”.

Staccò il cellulare e lo portò dietro in laboratorio, senza aspettare la risposta. Doveva darsi una mossa e mettersi al lavoro.

Cominciò a stendere l’impasto, diede un’occhiata al display che si era illuminato per un istante: un pollice alzato lasciava capire che Margherita sarebbe passata. Si lasciò assorbire dal lavoro, come sempre, e per una buona mezz’ora nella testa non ebbe che ritornelli di canzoni cantati in loop, gli si erano infilati in testa chissà come. Poi, improvviso, forse richiamato da un gesto automatico o da uno sbuffo di farina, o magari da una voce attutita che arrivava da dietro la tenda, tornò il pensiero di Cleo.

Portò due strisce di pizza di là e le fece scivolare sul bancone, nello spazio che Valeria aveva preparato. Poi andò di nuovo sulla porta e si fermò sulla soglia, a guardare quella piazza, e il pilone di cemento sul quale aveva dato un bacio a Cleo, una volta.

Non sarebbe stata una decisione semplice.