Buongiorno Aureliano

Un giorno di primavera

La cassa di legno chiaro è al centro della navata. Poggia su un anonimo carrello di metallo con le ruote di gomma che si intravede dietro un drappo di velluto nero incorniciato da frange d’oro. Il drappo ne maschera l’asettica utilità donandogli un’aria solenne.

Dietro l’altare una vetrata, alta e stretta, risplende di colori e stempera la luce del sole. Non riesco a distinguere cosa ci sia raffigurato, perché se non strizzo a sufficienza gli occhi non vedo. Gli occhiali sono rimasti a casa, dimenticati tra un grido e l’ormai abusata e vuota minaccia di non tornare. Cosa che invece mi ritroverò a fare, come sempre, quanto meno per riprendermi gli occhiali.

Li strizzo fino al limite, gli occhi, concentrandomi per ricavare un’immagine sensata da quelle tessere di vetro colorate, e alla fine azzardo con me stesso: ”Assunzione in cielo di Maria”. Vedo raggi di luce che sembrano avvolgere una figura femminile rivolta al cielo, non so nemmeno se esista un’immagine sacra di questo tipo, non sono un esperto in materia, ma scarto l’idea, sarcastica e irrispettosa, che per un attimo mi balena nella testa, del disco volante che rapisce un terrestre.

La bara è ricoperta da un cuscino di fiori, veri, e da foglie che sembrano di plastica. Rose bianche, qualcuna rossa. Un nastro viola: il figlio.

Il figlio si chiama Paolo, sta fuori, lo ha chiamato qualcuno, forse un vecchio parente che gli vuole raccontare quanto fossero stati amici lui e suo padre, anzi il suo “babbo” come lo chiamano da queste parti. Mentre io mi rendo conto che lo conoscevo poco, come si conosce “il babbo”, appunto, del tuo migliore amico: lo vedi spesso, gli parli poco, sempre indeciso se dargli del tu o del lei e senza sapere mai cosa dire e cosa no.

Qualche volta mi catturava parlandomi di una sua passione per antiche casate, con una voce bassa e monotonale che rendeva difficile cogliere tutte le parole. Ne aveva fatto quasi un lavoro di quella sua passione ed era riuscito a pubblicare persino un paio di libri sull’argomento. In genere, dopo qualche minuto, interveniva Paolo che gli intimava, senza eufemismi, di non rompermi i coglioni. Poi mi chiariva le cose che non ero riuscito a capire dimostrandomi, senza volerlo, l’ammirazione che aveva per lui.

Quando Paolo mi ha chiamato, ieri, l’ho lasciato raccontare: “è stata la fine di un calvario” mi ha detto. Ho imprecato, per solidarietà, ed ho evitato ogni frase di circostanza. Non mi vengono con nessuno, figuriamoci con gli amici. Ho sempre odiato la parola “condoglianze”, la trovo una formula rituale falsa, che non esprime nulla, una specie di: “tante care cose!”. Non mi stupirei se qualcuno rispondesse: “a te e famiglia”. Così dopo qualche parolaccia e qualche sospiro che esprimeva meglio di qualsiasi parola tutti i miei sentimenti, gli ho detto di farmi sapere l’ora dei funerali. Ed ora eccomi qui, in questa piccola chiesa, in questo piccolo paesino ancora deserto d’aprile, tra queste colline verdi di inizio primavera.

Foto di RitaE da Pixabay

Il paesino è talmente piccolo che il prete sono dovuti andare a prenderlo in macchina al paese vicino. Sembrerebbe indiano, non ha le chiavi della sagrestia, che è chiusa, ma qualcuno dice ad alta voce che sta arrivando Eugenia. Lui, mentre aspetta Eugenia, comincia a sistemare qualcosa sull’altare, accennando inchini e segni della croce rivolti agli oggetti sacri che lo circondano.

Un altro amico, Angelo, seduto al mio fianco, mi chiede se quello è il prete. Sembra stupito dai pantaloni e dal giubbotto. È rimasto con l’immaginario collettivo di qualche anno fa, è una cosa che può accadere tra noi cinquantenni: si aspettava il prete con la tonaca ma io, pensandoci ora, saranno anni che non ne vedo uno così. Abbiamo l’immaginario scaduto Angeli’.

Finalmente Eugenia arriva, apre la porticina di fianco all’altare e scompare con il prete indiano. Dopo pochi minuti, ricompare e la vedo girare tra gli abituali frequentatori della chiesa domandando se c’è qualcuno che voglia fare una lettura. Si tratta, per lo più, di signore anziane uscite di casa senza occhiali, come me insomma. Una dice che, se è scritto grande, potrebbe anche farcela ma non se la rischiano. Alla fine, una lettura la fa Eugenia e una il prete stesso.

Don Giuliano, come l’ho sentito chiamare da Eugenia, finita la sua, di lettura, comincia l’omelia. Paolo è seduto davanti a me, lo vedo di spalle. Ogni tanto si piega in avanti e mi sembra di cogliere un sospiro. Immagino stia salutando suo padre per conto suo, allunga una mano per accarezzare il legno lucido della cassa. Quel gesto mi commuove: ‘Chissà in quali ricordi si è perso!’ penso tra me e me.

Per evitare di piangere mi concentro su Don Giuliano. Mi domando quale sia il suo vero nome, dice “su questa tera” con una sola erre, e mi ricorda un vecchio comico che a me e a Paolo faceva ridere tanto.

Intanto ci alziamo e ci risediamo guardando gli altri, non ne sappiamo molto di messe, copiamo. Grazie alle mascherine che indossiamo non siamo nemmeno costretti a muovere le labbra per far finta di conoscere le battute che toccano a noi. Però so che Paolo, anche se in un modo molto personale, crede a tutto questo. Perciò lo rispetto e partecipo, per quanto mi sia possibile, a tutto il rito, fedele, se non al significato religioso, alla sua funzione.

Sono stupito da come i preti, in queste occasioni, azzecchino sempre i nomi delle persone coinvolte come se le conoscessero davvero. Immagino se li scrivano su un fogliettino, ma non è così semplice: non è che puoi sbirciare il foglietto ogni volta: “Siamo vicini a …” esitazione, sbirciatina: “Paolo!”. Non funzionerebbe.

E come a conferma di questa difficoltà, il povero Don Giuliano sbaglia proprio sul finale, ed è a Marco, non a Mario, che diamo l’ultimo saluto. Per un attimo ho il terrore che Paolo si alzi a dire che non vale, ma forse non se n’è accorto, o più probabilmente ho sentito male io. Un piccolo applauso mette fino a tutto e saluta la bara che esce dalla chiesa.

Fuori, una processione di vecchi zii e di vecchi amici fa le condoglianze a Paolo, io e Angelo ce ne stiamo un po’ in disparte. Faccio di sì con la testa e confermo tutte le sentenze che mi spara Angelo con degli: “e già!”, qualche volta rafforzo con “è così, è così!”, ripetuto due volte.  

“È caldo oggi” mi dice ad un certo punto. Io temo stia per dirmi che non ci sono più le mezze stagioni, così confermo che è caldissimo e mi allontano per evitare di ridere o di dargli uno schiaffo. Faccio un giro per la piazza e guardo le case e i vicoli stretti.

Quante volte ho sognato di vivere in una di quelle case di pietra, in un posto come quello, da solo o con Lucia a seconda dei momenti. Un giorno mi ritirerò in un posto come questo, pensavo.

Quando diventerò… quando farò… Da un po’ faccio più fatica a pensare con i verbi al futuro, oggi, poi, ancora di più, per quanto in un primo momento mi venga naturale. Allora li trasformo al presente e mi domando se vorrei andare davvero a dormire in una di queste case stasera. Ripenso per un momento alla sfuriata di questa mattina e mi rispondo di sì, nella mia versione solitaria. C’è una finestra aperta e intravedo una tv accesa su uno di quei programmi in diretta del pomeriggio: preferisco tornare al funerale.

Paolo ora sta parlando con un uomo che deve avere più o meno la nostra età, Angelo mi dice che è il sindaco, e aggiunge un “mortaccisua” di ammirazione.

“Era il sindaco” mi conferma dopo un po’ Paolo. “Mi ha detto che pianteranno un albero per mio padre e che poi mi diranno dove l’hanno piantato.”

“Beh, bello.” Commento io.

Paolo alza le spalle, Angelo ci guarda. Non sa se dire che a lui pare una cazzata o una cosa forte, pare aspetti noi per non contraddirci. Ma forse sono io che sono cattivo oggi, magari la mia è solo una forma di gelosia, sono anni che ci dividiamo l’amicizia di Paolo.

“Io ricordo che i comuni piantavano un albero per ogni bambino nato.” Dico. “Almeno quando è nato Federico era così, ma sono passati vent’anni. È ancora così? Tu che hai i figli più piccoli.”

“Boh”

Boh. Argomento chiuso.

Mi viene in mente “L’albero ed io”. È una canzone di Guccini che oggi sembra fatta apposta. Un blues lento che mi canto in testa.

“Quando il mio ultimo giorno verrà

dopo il mio ultimo sguardo sul mondo

non voglio pietra su questo mio corpo

perché pesante mi sembrerà

Cercate un albero giovane e forte

quello sarà il posto mio

voglio tornare anche dopo la morte

sotto quel cielo che chiaman di Dio”

Mi guardo intorno mentre camminiamo verso il cimitero. C’è un po’ di strada da fare.

Subito fuori dal paese grandi distese di campi e macchie di alberi.

Ripenso all’albero che avrebbero dovuto piantare quando è nato mio figlio e immagino un piccolo arbusto, su una chiazza di verde circondata dal grigio delle torri della periferia romana. Certo fa più simpatia quell’arbusto di questi alberi secolari: lui solo a combattere contro i giganti, questi un esercito schierato ad affrontare il tubo di scarico di una fiat panda.  

I cimiteri di questi paesi sono riproduzioni in miniatura dei paesi stessi. Tutti i cimiteri lo sono, ora che ci rifletto su. Un nucleo di tombe e di croci più e meno vecchie, più e meno curate, tra vicoli stretti di brecciolino: il Centro Storico. Qualche cappella delle famiglie più ricche o che comunque hanno pensato di investire di più in quella residenza estrema, chissà con quali prospettive. E poi la periferia moderna dei loculi, su piani troppo alti, alveari, proprio come spesso senti definire quegli stessi palazzi grigi che circondano il povero piccolo arbusto delle periferie. Oggi tutto mi sembra una metafora della vita.

Paolo se ne sta lì a guardare Don Giuliano che schizza un po’ di benedizione sulla cassa, dietro la mascherina sta pronunciando parole che non mi arrivano per la distanza. Ma gli do fiducia, penso sappia cosa stia dicendo, non credo si limiti solo a muovere le labbra. Angelo, a fianco a me, legge le date sopra le croci più vicine a noi. Quasi tutti nati sul finire dell’Ottocento e morti nella prima metà del secolo dopo. Mi avvicino a Paolo

“Beh, è fatta no?”

“Era sereno, sai?” mi dice. “Gli ho portato il vestito, la camicia, una bella cravatta. Tutto nuovo.” Il tono mi fa pensare a quello di una mamma che ha appena vestito suo figlio per la comunione della cuginetta.

Io annuisco. Intanto vediamo che a forza di braccia sollevano la bara per infilarla al suo posto, accanto alla foto sorridente di Liliana, la mamma di Paolo, che sta lì già da qualche anno. Me lo ricordo quando ce l’hanno messa e Mario ci aveva indicato il posto libero accanto a lei. Mi commuovo un po’ al ricordo. Faccio un sospiro e vado a parlare con Angelo, penso che mi farà bene.

Il muratore che ha chiuso il loculo ha fatto un bel lavoro, una piccola parete di cemento che presto sarà coperta dalla glacialità e dalla lucentezza di una lastra di marmo. Siamo andati via per ultimi, dopo aver salutato tutti gli altri.

Rientriamo in paese camminando piano.  Paolo elenca tutte le cose che deve fare. Pensare alle case, all’auto, alla terra. Per ora vede solo cose da pagare e giri e file da fare.

“Guarda fai presto” dico io per sdrammatizzare. “La casa qui in paese la regali a me, quella di Roma a Angelo”

“La vuoi?” mi dice con un tono troppo serio. È chiaro che non dice davvero ma per un attimo mi ritornano i pensieri di poco prima e torno a domandarmi se davvero vorrei vivere lì, oggi. Intanto ci arriviamo alla vecchia casa di Paolo, sono almeno quattro anni che non ci viene più nessuno.

Guardo il giardino abbandonato, i rovi hanno ricoperto quasi completamente una panchina, sembra la stiano mangiando, così come il breve vialetto, una volta bianco e polveroso, che ormai si distingue appena.

“Ti ricordi la serra?” dico a Paolo.

“Certo che mi ricordo” mi dice con un sorriso triste.

Era una fine d’estate di più di vent’anni fa. Il papà di Paolo voleva costruire una serra per un limone che stava in un grosso vaso. In realtà un semplice riparo fatto di legno e teli di plastica trasparente. Ci passammo l’intero pomeriggio, una di quelle cose che lì per lì non te ne rendi conto e che poi, senza spiegartene il motivo, diventano momenti che ricorderai per tutta una vita.

Non vedo alberi di limoni nel giardino e allora mi chiedo che fine avrà fatto quel vaso, se fosse valsa la pena fare quella fatica, quel giorno. Quando pensavo ancora con tutti i verbi al futuro.

“Quelli sì che erano bei tempi” dice Paolo, che ora comincia a ricordare altre piccole cose vissute insieme intorno a quella casa: la gita sul fiume, quella volta che diede un morso per sbaglio a Francesca, e quella foto con un fiore tra i capelli con la quale avevamo riso cento volte, il giorno che la scattammo e tutte le volte che l’abbiamo riguardata.

Ci fa ridere ancora oggi e Angelo, sollevato da quelle risate, come se fosse finito il momento di essere tristi, entra nel discorso citando anche lui ricordi. Che non esistono: li sta inventando ora, ne siamo sicuri, io e Paolo, che ci guardiamo e lo assecondiamo. Angelo ci fa ridere ancora di più, inventa particolari improbabili e assurdi che tutti sappiamo non essere veri. Sono ricordi al presente. Ed io, che dalla nostalgia di quando parlavo al futuro ero scivolato a parlare con i verbi al passato, sento il bisogno di abbandonarmi un po’ al presente, che è l’unico tempo che conta, poi.

In uno dei finti ricordi c’è anche Lucia, mi viene voglia di chiamarla. Mi allontano un po’ a cercare campo e silenzio:

“Allora com’è andata?” mi chiede lei con un tono che non è più quello del mattino.

“Così” dico io, riassumendo in una sola parola tutto un pomeriggio dall’andamento scontato e quasi banale. Inutili sia la domanda che la risposta se non per il tono da burrasca finita. Ripenso, chissà perché, agli occhiali: sulla scrivania, ecco dove li avevo lasciati.

“Paolo come sta?”

“Abbastanza bene”

“Dagli un abbraccio da parte mia”

“Sì.”

“…”

“Ci vediamo dopo, stiamo ancora un po’ qui, poi ripartiamo”

“Ok. Vai piano” mi dice. L’eterna raccomandazione che si fa a chi ti è caro.

Torno da Paolo e Angelo. Non ci vediamo più tanto spesso eppure stiamo così bene insieme. Ma oggi non è giorno di promesse. Respiro l’aria pulita e fresca della campagna, un vicino di casa si avvicina con un vassoio della Coca Cola, ci sono sopra tre tazzine di caffè e un piattino di biscotti. Così all’odore della campagna si aggiunge quello del caffè. Solo in quel momento mi accorgo di una pila di libri tutti uguali, sono i libri di Mario, ne ho una copia anch’io a casa.

Ne prendo uno e leggo il nome sulla copertina. Se fosse quello il segreto dell’eternità? Continuare a vivere in un libro, continuare ad esistere sullo scaffale di una libreria, o su un comodino, condividendo lo spazio con una sveglia ed un abat-jour.  Lo so benissimo che si tratta solo di un inganno e che eternità non significa nulla. E poi c’è un po’ di Mario ovunque intorno a me. In quel giardino ormai incolto, in quella pietra su cui si è seduto un milione di volte, e nella fossetta sul mento di Paolo, che era la stessa fossetta che aveva lui.

“Quanto zucchero?” mi chiede il vicino

“niente, grazie” rispondo con cortesia. Mi ero perso un attimo. Torno al presente e prendo un libro. Penso di leggerne un pezzetto ad alta voce. Lo apro a caso.

Paolo e Angelo mi guardano, in attesa.

“Sono i libri del babbo quelli?” domanda il vicino con rispetto e ammirazione. Paolo risponde di sì, credo con una certa fierezza.

Devono aver capito le mie intenzioni ed ora aspettano che inizi a leggere, che faccia rivivere per qualche istante Mario, usando le parole che lui stesso ha scritto. Anche il vicino rimane in silenzio.

“Capitolo quattro” inizio io.

Poi mi interrompo improvvisamente, e richiudo il libro con un sospiro. Paolo mi guarda.

“Ma ti sei commosso?” mi chiede con voce un po’ incerta.

“No. Forse un po’.” E guardando il suo viso ora mi sto commuovendo davvero.

Non glielo dico che la colpa è soltanto di quegli occhiali rimasti sulla scrivania, e senza i quali ormai non leggo più.