Buongiorno Aureliano

Positivo e asintomatico

Un esperienza da raccontare     


Mercoledì pomeriggio ho cominciato ad avere forti dolori dovuti, come ho poi scoperto, ad un piccolo calcolo. La sera erano diventati talmente forti che sono dovuto andare al Pronto Soccorso.

Il Pronto soccorso del Sant’Andrea, 

come suppongo gli altri, è stato diviso in due aree: una per chi ha sintomi da covid ed una per il resto. Ultimamente in questa seconda area ci sono poche persone: difficilmente si presentano per sintomi lievi e i pochi che si rivolgono al Pronto Soccorso hanno tutti problemi abbastanza seri. 

Mi hanno subito accolto, fatto gli esami necessari, dato un antidolorifico eccetera eccetera. Dagli esami ho scoperto di avere una brutta infezione in corso e quindi mi hanno trattenuto.

Una notte al Pronto Soccorso 

non è la cosa migliore che ti possa capitare eppure, avendo il tempo di guardare e di riflettere, se ne può trarre qualcosa di buono. 

Sono convinto che sono gli occhi di chi guarda a fare la differenza e mi rendo conto che queste sono state solo le mie impressioni, ma in quel posto non si può negare che ci sia qualcosa di meraviglioso. 

C’è un infermiere che scherza e strappa sorrisi, ce n’è una affettuosa e gentile che chiama tutti “tesoro” e “amore”, c’è anche quella un po’ più brusca e pratica che sembra avere come priorità l’efficienza. Insomma ci sono persone con il loro carattere e la loro umanità che hanno scelto un lavoro indispensabile. 

Spesso sento parlare di categorie in maniera astratta, sento dire: “gli infermieri” o “la sanità pubblica”, e conseguentemente, in questi casi, ci si schiera sempre da una parte o dall’altra. Eroi o menefreghisti, funziona o non funziona. Dimentichiamo che alla base di tutto ci sono gli esseri umani. 

Li ho visti chiacchierare, in un momento di calma, ma li ho visti anche correre, veloci ed efficienti, all’arrivo di un ambulanza. E sentivo la frenesia, il suono dei macchinari con i loro bip acuti provenire dalla sala dei codici rossi. Io non so se vi è abbastanza chiaro, ma li dentro si salvano vite umane. 

Ho dormito a tratti, della notte mi è rimasto solo il ricordo di una infermiera che mi portava una copertina senza che gliel’avessi chiesta e l’orologio di un monitor che scandiva lento le ore.  

Alle cinque e trenta della mattina

Mi hanno fatto un nuovo prelievo: la situazione era migliorata. Mi hanno detto che sarei andato in reparto per monitorare il tutto, almeno fino a quando non mi fosse passata l’infezione. 

Mi hanno fatto il tampone, come da prassi di questi tempi, ed il resto della giornata è stato un’aspettare l’esito e il ricovero al reparto. Nel frattempo ho continuato la cura di antibiotico, ho usufruito di colazione e pranzo (pensavo peggio), e continuato ad osservare.

Un paziente anziano parla ad alta voce al telefono: “Me trattano bene! stamattina m’hanno portato la colazione, potevo pure sceglie, tè o latte, e le fette biscottate”.

Altri due conversano di sintomi e di patologie, citando luminari ed elencando serie di ricoveri. 

Una vecchietta minuscola, coperta da una specie di copertina dorata che sembra l’incarto di un uovo di pasqua e fa il classico scricchiolio ad ogni movimento (ma che ci fa una cosa del genere in ospedale? devo chiedere), pronuncia di continuo frasi sconnesse e incomprensibili, dirette a chissà quale fantasma di un suo mondo immaginario. 

Un infermiere porta una bustina di plastica ad una signora dal peso importante, dentro c’è della pizza, da parte di sua figlia. La stessa signora dopo qualche ora chiede preoccupata se ci passano “il vitto”.

E poi ogni tanto passano, in fretta, operatori nelle loro tute bianche protettive, con mascherine e visiere, che iniziano il loro turno nel reparto covid. 

L’esito del tampone

Verso le 18 arriva l’esito del mio tampone. Me lo comunica la dottoressa, è positivo. Rimango senza parole, non ho sintomi, non capisco. Sono smarrito ed un po’ spaventato.

Di certo non posso stare lì e non possono mandarmi in reparto. Vengono due operatori con le loro tute bianche e le mascherine e le visiere e mi trasferiscono nell’altra ala del pronto soccorso. 

Ecco. 

Chi ha ancora dei dubbi o non crede all’emergenza, chi pensa a complotti o ad una informazione che ci vuole terrorizzare a proposito, dovrebbe passare qualche minuto qui.

Decine di letti, uno accanto all’altro, grida di dolore da più parti, lamenti e pianti. Molti sono attaccati all’ossigeno, e questa ovviamente non è la “terapia intensiva”. 

E poi loro: infermieri, medici, operatori, che non so distinguere perché nelle loro tute bianche mi sembrano tutti uguali, che corrono a destra e a sinistra, veloci, essenziali.

Non voglio fare retorica, non voglio parlare di eroi e cadere nello stesso errore di cui parlavo prima: sono persone che fanno il loro lavoro, giusto. Ma un lavoro che io non avrei mai il coraggio di fare. Un lavoro che non può essere slegato dal concetto di “missione”. 

Ho la fortuna di avere una sorella eccezionale che ha scelto di fare questo tanti anni fa, e so che nonostante la fatica, i turni di notte, lo stress (sommati all’avere una famiglia di cinque persone), non lo cambierebbe per nessuna ragione al mondo. 

Ho socchiuso gli occhi, cercando di guardare dentro di me per tenere un po’ più distante quello che accadeva intorno. Non lo descriverò: perché non credo che io possa rendere sulla carta quello che ho provato in quel momento. 

Dopo qualche minuto una delle tute bianche si avvicina, è il medico. Ha la mia cartella, si informa sui miei sintomi. Se ho la possibilità di stare in isolamento a casa potrei continuare anche lì le mie cure.

Fisicamente mi sento bene, non ho più dolori dalla sera prima, non ho alcun sintomo a livello respiratorio. Non ho difficoltà a decidere. Dopo un ora sono fuori. 

Il ritorno a casa

Doppia mascherina, per me e mia moglie che mi è venuta a prendere, seduti distanti. Arrivo a casa, un saluto con lo sguardo ai miei figli (Grandone e Piccoletto, ve li ricordate?) e mi chiudo nella cameretta nella quale passerò i prossimi giorni.

Isolato dal resto della famiglia ma circondato dalle mie cose, con pc, tv, e una play che i miei figli mi hanno gentilmente prestato per passare queste giornate.

Continuo la mia cura e fortunatamente non ho avuto più dolori. Mi portano da mangiare fuori la porta e parliamo in videochiamata. Ci proteggiamo a vicenda.

Pensieri

La prima cosa che ho pensato quando sono entrato nel reparto covid è che fossi entrato in un girone dell’inferno. Senza giocarci tanto, è la prima immagine che mi è venuta in mente: dannati che si lamentavano nelle fiamme dell’inferno.

A ripensarci oggi mi rendo conto che non c’è immagine meno adatta. 

L’inferno evoca un qualcosa senza via di uscita, disperazione cieca.

Quello che ho visto è esattamente l’opposto: ho visto esseri umani prendersi cura di altri esseri umani, tra mille difficoltà, aiutandosi uno con l’altro, correndo, imprecando, magari anche sbuffando. 

Solo a ripensarci mi vengono le lacrime agli occhi e al tempo stesso provo un senso di frustrazione dato dalla consapevolezza di non riuscire a rendere quello che ho provato e sentito.

C’è speranza. Solo questo dico. C’è speranza. Fidatevi.


La Liggera