Buongiorno Aureliano

L’ufficio attivazioni TV

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    Aveva due ore di tempo, sarebbero bastate ma aveva già avvisato l’ufficio dell’eventualità di un ritardo. La prima ora trascorse tra il viaggio in auto e l’attesa in accettazione, poi finalmente ebbero la stanza. Gianni attese fuori dal reparto di poter salutare suo padre. Misurò con i passi la distanza tra una parete e l’altra, poi, visto che l’attesa si prolungava, cercò di calcolare quante mattonelle ci fossero nella stanza. E poiché l’attesa si prolungava ancora passò a contare i forellini sulle sedie di metallo. Era alla decima sedia quando la porta del reparto si spalancò. Letto 14, gli aveva scritto il papà su WhatsApp. 

    Suo padre Alfredo indossava un pigiama azzurro, sedeva sul letto e sistemava oggetti sull’alto comodino. Si guardava attorno per prendere confidenza con quella che sarebbe stata la sua casa per qualche giorno. Attaccò un paio di caricabatterie per tablet e telefono lasciando gli attacchi a penzoloni pronti all’uso, chiuse nel cassetto una settimana enigmistica nuova e una penna. 

    Scherzarono un po’, per esorcizzare la paura, poi venne il momento dei saluti:

    “Soltanto un momento”, disse Alfredo, “Stasera c’è il derby ce l’hai il tempo per farmi attivare la tv?”

    “Ma certo, quanto ci vorrà? Cinque, dieci minuti?”

    Gianni si fece dare le istruzioni necessarie da un infermiere che gli comunicò il numero da dare all’ufficio attivazioni TV, al piano terra.

    Uscì dal reparto e si trovò davanti ai cinque ascensori. Non aveva mai capito bene come funzionasse la storia dei tasti da premere, tra salire e scendere. Premette un tasto che subito si spense, forse l’ascensore stava salendo? Lo rischiacciò, poi ne schiacciò altri: non accadde nulla. Improvvisamente una porta si aprì, fece per entrare quando dall’ascensore uscirono due operatori sanitari con una barella che lo guardarono cupi. Era quello dedicato ai pazienti. Un’altra porta si aprì subito dopo ma l’ascensore saliva ed era pieno. Gianni si spazientì, cinque piani a scendere non erano poi una gran fatica quindi scelse le scale.

    L’ufficio attivazioni era aperto ma vuoto. Si guardò intorno, passarono quasi cinque minuti prima di vedere un uomo che si avvicinava infilandosi in bocca a forza l’ultimo pezzo di un tramezzino. 

    “Mi scusi, ero in bagno”, disse l’uomo. Gianni accennò un sorriso pensando che, vista l’ora, una “corsa al bagno” ci potesse stare. Attivò la TV, pagò e l’uomo gli consegnò una ricevuta e il PIN da inserire alla prima accensione. 

    Gli ascensori rappresentavano ancora un problema ma cinque piani in salita erano un’altra cosa, così alla fine si infilò di forza tra gli sguardi pieni di odio di parenti frettolosi e pazienti in pigiama. 

    L’orario di visita era quasi terminato e un infermiere tentava di far uscire gli ultimi parenti, Gianni si scusò: “Un minuto, attivo la TV a mio padre e vado via”. L’infermiere annuì.

    Alfredo sorrise nel vedere il figlio, a Gianni parve il sorriso di un bambino.

    “Già fatto?” chiese.

    “Certo”, rispose Gianni con un certo orgoglio, “basta inserire il PIN e…”

    Infilò le mani nelle tasche del giaccone, poi dei pantaloni, poi di nuovo nel giaccone. Tirò fuori nell’ordine: le chiavi dell’auto, quelle dell’ufficio, quelle di casa, alcune monete, il cellulare, una medaglietta che credeva di aver perso, un fazzoletto di carta rinsecchito. Si chiese quante tasche avesse, in una tasca interna della giacca trovò un biglietto della metro di Milano, non ci andava da quasi due anni. Si arrese. Aveva perso il Pin ovviamente. 

    Si scusò e fece la strada all’indietro, pensando che arrivare in orario in ufficio fosse sempre più un sogno irraggiungibile. Si scusò con l’infermiere dicendo che sarebbe dovuto rientrare e spiegò l’accaduto guardandosi intorno sul pavimento e infilando le mani nelle tasche per dare credibilità alle sue parole. Fuori dal reparto le cinque porte degli ascensori lo aspettavano. I due operatori di prima passarono con un’altra barella e lo guardarono di nuovo. Gianni lesse chiaramente nei loro sguardi:” ma ancora qui stai?”.

    Attese l’ascensore che aveva preso per salire, c’era un po’ meno gente stavolta e fu semplicissimo constatare che del pin non c’era traccia. La cosa più saggia era tornare all’ufficio attivazioni e farselo ridare.

    L’impiegato del tramezzino non c’era più, un suo collega con gli occhiali spessi e l’aria arcigna scriveva al computer, Gianni provò a spiegare l’accaduto.

    “Nessun problema” disse il sostituto, “è sufficiente mi dia la ricevuta e le ristampo il PIN”

    “Vede, il problema è proprio questo: il PIN era sulla ricevuta ma io ho perso, appunto, la ricevuta.”

    “Non mi dica che il collega le ha spillato il PIN sulla ricevuta? Sa quante volte mi sono raccomandato di non farlo?” No, non lo sapeva di certo. L’impiegato due gli ordinò di dare un’altra occhiata in giro prima di provare a risalire in altri modi al PIN. Tornò a passo affrettato e senza alcuna speranza verso le cinque porte d’acciaio, aveva deciso di perdere qualche minuto lì intorno e poi sarebbe tornato dall’impiegato perché non aveva avuto il coraggio di contraddirlo apertamente, per un momento a Gianni era parso di avere davanti il vecchio professore di latino. 

    Invece era lì, la ricevuta con il Pin. Sotto una specie di vaso, calpestata, stropicciata e sporca di terra ma ancora leggibile. La raccolse e si precipitò su: persino gli ascensori, finito l’orario delle visite, sembravano meno infernali. Peccato che la porta del reparto al quinto piano fosse chiusa.

    Suonò al citofono. Attese qualche secondo, con il dubbio di aver suonato o meno. Quando gli sembrò di non essere troppo insistente schiacciò di nuovo il tasto, stavolta in profondità e a lungo. Ancora non ebbe risposta. Guardò l’orologio. Ad un tratto la porta si aprì, un medico stava uscendo, era la sua occasione. Fintò a destra, poi scartò a sinistra e con uno scatto passò sotto il braccio teso del medico infilandosi nel reparto. Sventolò in direzione dell’infermiere il PIN ritrovato e mormorò frasi di scuse a mezza bocca. 

    “Pin… subito… un secondo e… grazie!”

    “Ritrovato”, disse poi al papà, raggiante. Prese il telecomando e accese la TV. Digitò il Pin e notò solo in quel momento che l’ultimo numero lasciava qualche dubbio: era un tre? O un otto? Li provò entrambi ma il messaggio di errore fu lo stesso. Magari era un nove.

    “Prova co tutti zzeri!”

    Gianni si voltò, il compagno di stanza di suo padre aveva aperto gli occhi e si era tolto la mascherina con l’ossigeno.

    “Prova co tutti zzeri, quello che c’era l’artro giorno faceva così: metteva tutti zzeri!”

    A Gianni non parve una grande idea ma suo padre lo pregò di provare. 

    “Zero, zero, zero… pin errato, attendere quindici minuti prima di reinserire il codice”. 

    Ebbe voglia di piangere. Suo padre lo guardava un po’ dispiaciuto e un po’ imbarazzato per aver insistito. Doveva tornare dal professore di latino, non c’era altro modo. 

    “Ho provato ad inserire il PIN ma credo di aver bloccato tutto”

    “Non avrà provato mica a mettere tutti zeri, vero?”

    “No, ci mancherebbe”

    Mezz’ora dopo, superati tutti gli ostacoli ed avvisato in ufficio dell’ormai impossibile ritorno, la tv cominciò a trasmettere. Il meno interessato sembrava essere proprio suo padre, ormai preso dal fare amicizia con il vicino. Ora che non aveva più fretta di andare Gianni rimase per un po’ seduto sulla sedia, ad ascoltare suo padre che parlava di lui con orgoglio e sorridendo imbarazzato ai complimenti del compagno di stanza. Quando i due passarono all’elenco delle malattie e dei ricoveri avuti pensò fosse arrivato il momento di andare. L’infermiere del reparto doveva averlo dimenticato perché quando uscì dalla stanza lo guardò sorpreso

    “Risolto tutto, vado” disse Gianni.

    A casa cenò, poi si distese sul divano con l’idea di vedere un film. Il display del telefono si illuminò per qualche istante, un messaggio whatsapp:

    “Abbiamo perso due a zero, era meglio se non l’attivavi la tv”