Buongiorno Aureliano

Il provino

Foto di bigter choi da Pixabay

“Bianca, bianca… bianca… verde. Bianca… uno… due bianche. Bianca! E sono dieci. Sì. Lo sapevo!”

Alberto guardò di sottecchi il ragazzo moro che esultava silenziosamente. Aveva stretto le labbra e il pugno in segno di vittoria, ma soltanto un attimo, poi si era guardato intorno come per vedere se qualcuno lo stesse osservando e avevano incrociato gli sguardi.  Il moro aveva sorriso e scosso un po’ la testa, con aria un po’ imbarazzata. Alberto aveva sorriso a sua volta, più per educazione che per altro. Poi avevano fatto finta di niente per qualche minuto. Il moro era tornato a guardare dalla finestra e a mormorare qualcosa, lui era tornato a leggere i suoi fogli. Alla fine, il ragazzo moro si era avvicinato.

“Nervoso eh?”

“Abbastanza.”

“Cosa porti?” chiese indicando con un cenno del viso i fogli

“Checov”

“Pirandello.”

Annuì in silenzio sperando di scoraggiare una conversazione, il moro parve non accorgersene.

  “Comunque io sono Edoardo.”

“Alberto.”

“Sono nervoso anch’io, non credere, forse è per questo che mi prende a parlare. Se ti do fastidio dimmelo pure che smetto subito eh!”

“No, è soltanto che stavo ripassando…”
“Hai ragione, hai ragione, scusami. Io non ripasso mai prima, ho dei trucchi miei che mi aiutano”

Alberto tornò ad immergersi nei suoi fogli, Edoardo provò a rimanere in silenzio ma non durò un minuto.

“Tipo, hai visto prima che esultavo? Era per il gioco delle macchine bianche”

Alberto lasciò di nuovo i suoi fogli, non c’era modo di concentrarsi e poi lo sapeva anche lui che ripassare a pochi minuti dal provino era inutile. Guardò quello strano ragazzo sospirando, con un leggero sorriso, e domandò:

“E cosa sarebbe questo gioco delle macchine bianche?”

“Allora: io conto le macchine che passano, se conto prima dieci macchine bianche il provino va bene, se ne conto prima dieci verdi va male.”

“Ma non mi pare ci siano molte macchine verdi in giro”

“Il trucco sta lì. Vinco sempre e quindi entro con la certezza che andrà bene!”

Alberto annuì, perplesso, quel ragazzo non ci stava molto con la testa, era evidente.     

“E’ il primo anno che provi ad entrare in accademia?”

Alberto rispose di sì con la testa

“Per me è il terzo, però sento che quest’anno sarà quello buono”

“Accidenti, il terzo anno.” Lo disse piano, più a sé stesso che all’altro. Si guardò intorno. Che possibilità aveva di entrare nell’accademia di teatro più prestigiosa? Ad un tratto si sentiva fuori luogo, inadeguato. Gli altri sembravano essere nel loro elemento, si muovevano con sicurezza, scherzavano tra loro. Due ragazzi parlavano di corsi e di insegnanti che, dal tono con cui ne pronunciavano il nome e da come annuivano dovevano essere senz’altro notissimi, eppure, a lui erano del tutto sconosciuti.

“Adesso non fare quella faccia, sono io che non ce l’ho fatta gli anni passati, mica tu!”

“Hai ragione, scusami ma, sai, a volte penso di non essere nel posto giusto.”

“Non ti piace recitare?”

“No, certo che mi piace ma forse non sono così bravo e sicuramente non ho la tua determinazione. Mi ero ripromesso di non pensarci fino al provino ma da domani comincerò a pensare ad una facoltà”

“Ho capito, sei uno da due costante.”

Alberto guardò Edoardo con aria interrogativa.

“No, scusami, non era un voto” corresse Edoardo. “parlavo del grado di felicità”.

Doveva essere una cosa tipo quella delle macchine bianche allora.

In quell’esatto momento una porta si aprì, il primo dei ragazzi che era stato chiamato a sostenere il provino uscì dalla stanza e subito gli altri lo circondarono e cominciarono a domandare. Quanti sono? Com’è andata? Che ti hanno detto?

Poi la porta si aprì di nuovo, un esaminatore chiamò un altro nome e allontanò il gruppetto lì davanti. Una ragazza rispose ed entrò nella stanza, la porta si richiuse, tornò la calma.

“Cos’è questa cosa del grado di felicità?”

“Allora: immagina di misurare la felicità da zero a dieci. Alcuni per paura di una delusione, quando devono fare qualcosa, pensano sempre che andrà male. In pratica la loro felicità, rispetto a questa cosa, ha sempre il valore di due.”

Alberto sorrise, si, per lui in effetti era un po’ così. Edoardo continuò:

“Se poi effettivamente andrà male non subiranno scosse e la loro felicità rimarrà sul 2, anzi, può darsi anche che salga a quattro per l’inutile soddisfazione di averlo già previsto. E quattro è comunque un voto di merda, sia chiaro.”

Alberto avrebbe voluto ribattere qualcosa ma il discorso, tutto sommato, filava.

“Io invece sono un ottimista, penso sempre che andrà alla grande! Il mio livello di felicità è sempre alto, diciamo intorno all’otto. Se poi effettivamente andrà bene salirà a dieci, e se andrà male pazienza, quel giorno scenderà a due ma nel totale avrò comunque totalizzato maggiore felicità! Mi sembra chiaro no?”

“Per essere chiaro è chiaro, ma, a parte che non decido io di essere così, non è paura di una delusione la mia. Sono soltanto realista”

“Questo è quello che dicono tutti i pessimisti. Mi dispiace per voi”

Tornò il silenzio, Alberto ora si sentiva irritato dalla superficialità della discussione. Le cose erano più complicate di così.

Cercò di concentrarsi di nuovo sui suoi fogli e gli tornò alla mente la domanda che il ragazzo gli aveva posto qualche secondo prima: non ti piace recitare?

Certo che gli piaceva recitare, amava recitare. Il solo pensarsi su un palco lo faceva stare bene. Ci aveva messo un po’ a capirne la ragione profonda, ma la sensazione di libertà che aveva provato sin da subito era qualcosa che non aveva mai provato prima. Ecco cosa significava per lui recitare, significava essere libero. Libero dalle convenzioni, dai ruoli che la società, la famiglia, la scuola gli imponevano ogni giorno.

Ripensò alla prima volta che era salito su un palco. Era la lezione di prova di un corso di recitazione in cui si era ritrovato quasi per caso. Ricordava, in particolare, un esercizio che in quel momento gli parve stupido, ma proprio in quell’occasione si ripromise che su quelle tavole non si sarebbe giudicato, non si sarebbe posto dei limiti. Che lo facessero gli altri, non gli sarebbe importato perché una volta sul palco non sarebbe più stato lui.

Così era arrivato al cosiddetto saggio di fine corso, una vera e propria commedia in realtà. In un teatro vero, anche se piccolo e un po’ sgangherato, con un pubblico vero.

Dalla mattina l’agitazione lo aveva travolto, tanto da togliergli anche l’appetito, non aveva mangiato nulla per tutto il giorno. Poi nel pomeriggio era arrivato in teatro.

L’ansia e la tensione erano diminuiti ad ogni pezzo di abito di scena indossato, ad ogni tratto di trucco, e quando, per ultimo, aveva infilato quegli occhiali privi di lenti erano sparite del tutto.

Il resto del tempo era trascorso come in un sogno, fino a quegli applausi finali, quando, mano nella mano con i suoi compagni, si era inchinato per tre volte, quasi commuovendosi. E aveva deciso che quello era ciò che avrebbe voluto fare nella vita.

Si guardò ancora intorno, chi lo aveva detto che quello non era il suo elemento? Stava forse rinunciando a quel desiderio di sentirsi libero?  

Passarono i minuti, venne il momento anche di Edoardo. Quello strano ragazzo che evidentemente non aveva paura di essere giudicato neanche al di fuori del palco, ed esponeva le sue assurde teorie a chiunque gli si trovasse a tiro.

“Tocca a me, batti cinque” gli disse

Alberto stavolta lo assecondò con più convinzione. Edoardo entrò nella stanza dell’esame e la porta si richiuse alle sue spalle.

Tornò al suo copione.

Un respiro profondo.

Non aveva bisogno di ripassare, posò i fogli e si rilassò. Rimase un po’ con gli occhi chiusi, quindi si avvicinò alla finestra a guardare fuori. Si sorprese a contare le auto bianche e verdi e sorrise tra sé, ripensando a quello strano ragazzo. Passarono alcuni minuti poi la porta si aprì.

Edoardo uscì e si liberò del solito gruppetto che stazionava appena fuori la porta. Sembrava raggiante, raggiunse Alberto.

“Non ti dico nulla per non distrarti ma secondo me è andata benissimo. E vedrai che tu andrai ancora meglio!”

“Non vedo la ragione per cui tu debba arrivare a queste conclusioni ma ti ringrazio per il sostegno. Non mi hai mai visto recitare, e se fossi negato?”

“Naaa, non saresti qui oggi. Mi dai fiducia e non ti atteggi. Vedi quello lì con quell’aria seria?”

Alberto guardò nella direzione indicata dallo sguardo di Edoardo

“Guarda come si muove, si sente un dio sceso in terra. Quelli così sono i peggiori, fidati”
Era uno di quelli che Alberto aveva sentito parlare di corsi e di stage, una delle cose che lo avevano messo in agitazione. Ora lo rivide con un occhio diverso e dovette ammettere di trovarsi d’accordo con il matto, ormai era così che lo aveva etichettato.

E non se ne andava. Il matto.

“Tranquillo, adesso ti lascio in pace. Mi metto lì buono buono e non ti rompo fino a quando non hai fatto.”

“Ma non devi andare?”

“E ché non ti aspetto? Scherzi? Se me ne vado ripiombi sul due fisso. Mentre ora già ti vedo che stai sul sei o addirittura sul sette”

Ancora quella cosa della felicità. Eppure, aveva ragione, si sentiva meglio. Aveva ancora quella giusta tensione, quell’ansia che lo agitava, ma la speranza, che pochi minuti prima era tornata ed ora aveva la meglio su tutti gli altri sentimenti negativi.

La porta si riaprì e si richiuse altre volte. Poi finalmente venne il suo turno.

Un’ora dopo erano seduti al tavolo di un bar, mangiavano un tramezzino.

  “Quindi ora dovremo aspettare una decina di giorni per sapere com’è andata?” chiese Alberto.

“Per essere andata è andata bene, quello lo sai già. Per sapere se ci hanno preso, invece, bisogna aspettare, sì.”

C’era il sole, Alberto chiuse gli occhi per sentirne tutto il calore. Si sentiva svuotato. Soltanto ora si rendeva conto di quanto fosse stato teso per questo provino. Ed era soltanto la prima fase.

“Ma tanto non lo passo sicuramente”

“E rieccolo! Due fisso. Io invece dico che ci rivediamo qui per la seconda prova tra due settimane, quindi preparati bene, hai già trovato una spalla?”

La seconda prova consisteva in una prova di dialogo, Alberto aveva pensato già a cosa portare ma non aveva ancora chiesto a nessuno di aiutarlo. Aveva in mente la persona a cui chiedere ma c’era sempre la possibilità che non avesse accettato, che non se la fosse sentita. Si vergognò e decise di mentire.

“Certo.”

“Non è vero.”

“No”

“Lo sapevo.”

Alberto provò a giustificarsi, ma poi rinunciò. Il sentirsi così scoperto lo stava irritando.

“Senti, non è facile come tu pretendi che sia.”

“Non ho mai detto che sia facile, e non ti arrabbiare. Anzi scusami.”
“No, figurati non c’è niente da scusare”

Continuarono a mangiare in silenzio poi Alberto disse

“Vorrei essere come te, a volte.”

“Cioè un idiota?”

Risero.

“Sai,” disse Edoardo, “io penso sempre che l’isola non c’è”

“Un’altra delle tue stramberie? Sentiamo!”

“L’isola non c’è, non è importante che ci sia, l’importante è sognarla”

Alberto non sembrava aver capito.

“Conoscerai l’isola che non c’è, la canzone! Seconda stella a destra, poi dritto fino al mattino e poi la strada la trovi da te”

“Si, la conosco”

“Beh, l’isola non c’è, è una utopia, ma è proprio per cercare l’isola che continuiamo a camminare. Io mi concentro sulla strada. Tutto lì”

Finirono di mangiare. Si alzarono e fecero qualche passo insieme. Venne il momento dei saluti.

Edoardo lo abbracciò forte, poi gli disse

“Ci vediamo qui tra quindici giorni”

Alberto sorrise

“E preparati bene per il dialogo. Mi raccomando!”

Lo vide andare via, lo seguì con lo sguardo per un po’.

Poi nella testa risuonarono gli ultimi versi della canzone

Non darti per vinto perché

Chi ci ha già rinunciato

E ti ride alle spalle

Forse è ancora più pazzo di te”