Buongiorno Aureliano

Harold

La bassa siepe, che delimitava la piccola stazione di servizio sulla Route 50, aveva ricominciato a crescere con l’inizio della primavera, ma ad Harold ormai sembrava sciocco mettersi lì a pareggiare i rami che spuntavano qua e là come peli ispidi su una barba incolta. Come ogni mattino ripeté i consueti gesti quotidiani consapevole che sarebbe stata l’ultima volta. Aveva deciso comunque di non pensarci. Sapeva di avere a poco a poco trascurato tante cose: aveva smesso di spazzare, ad esempio; qualcuna delle imposte era da riparare, in particolare quella della sala che sempre si era ostinato a chiamare “tavola calda” e nella quale Margaret fino a qualche tempo prima cucinava per i clienti; in un angolo un carrello da meccanico che conteneva piccole parti di ricambio, poche chiavi e qualche cacciavite, era ormai quasi vuoto.

Aveva sgomberato il passaggio davanti alle colonnine del rifornimento e tirato fuori dalla rimessa gli espositori con le carte stradali e i profumatori per auto; questi ultimi erano stati un’idea di Margaret, Harold non ci avrebbe scommesso un centesimo, ma poi si erano venduti bene. Infine, aveva girato il cartello sulla strada dal lato “APERTO” e si era seduto al solito posto a guardare l’orizzonte con il sigaro spento in mano.

Da quando aveva deciso di cedere alle insistenze di Margaret e di lasciare per sempre la piccola stazione per andare in città da sua figlia Beth, lei aveva smesso di urlare e lo starsene seduto lì aveva perso un po’ del suo fascino. Erano le urla di Margaret a mancargli o la consapevolezza che avrebbe smesso di aspettare?

Ray non sarebbe tornato, e in fondo lo aveva sempre saputo.

Il giorno in cui partì, Harold lo aveva accompagnato a Placerville, alla corriera, poi era entrato nel negozio dei Forrest e aveva comprato una cartina dell’Asia. Quando, cinque mesi dopo, venne l’ufficiale a comunicare che suo figlio risultava disperso, Margaret si era chiusa in camera da letto, lui aveva ripreso la carta da sopra un armadio e si era messo a fissare quella strisciolina arancione con su scritto Vietnam, sotto quella grande chiazza rossa che era la Cina. Era stato a fissarla sul tavolo della cucina per più di un’ora fino a quando il clacson di un’auto non lo aveva scosso e riportato alla realtà. Per una settimana circa avevano vissuto in uno stato di incoscienza, poi un mattino Margaret aveva preparato la colazione e aveva detto ad Harold che sarebbe andata a Sacramento, a dare la notizia a Beth. Voleva essere lei a dire a sua figlia che suo fratello Ray era morto. Proprio così aveva detto Margaret: “morto”.

“Disperso! L’ufficiale ha detto disperso”

“È la stessa cosa, Harold. E prima te ne renderai conto, e meglio sarà per tutti”

Non era la stessa cosa, non lo era affatto. Allora era uscito fuori e si era messo a guardare ad est. Se un giorno il suo Ray fosse tornato lui lo avrebbe visto arrivare da lì.

In qualche stanza nascosta della sua mente sapeva che Margaret aveva ragione, ma il pensiero di vederselo comparire da lontano con la sacca sulle spalle, aveva scacciato per la prima volta le immagini dei corpi straziati e delle lunghe file di bare coperte dalla bandiera americana che, nemmeno un paio di mesi prima, aveva visto in una tv dalla vetrina di un negozio.

Allora era rientrato aveva preso una sedia dalla tavola calda e l’aveva portata fuori, accanto alla rimessa. Si era seduto rivolto ad est e si era messo a fissare l’orizzonte, ad aspettare. Aveva tirato fuori un sigaro ma non lo aveva acceso: Ray lo odiava e sarebbe stato buffo se, al suo ritorno, lo avesse rimproverato per la puzza di fumo.

Da quel giorno erano passati quasi due anni ormai e non c’era stato un giorno in cui Harold non si fosse seduto su quella sedia ad aspettare, con lo sguardo fisso all’orizzonte e il sigaro spento in mano.

Margaret arrivò silenziosa dietro di lui:

“Harold, ho bisogno del tuo aiuto per finire di preparare le ultime cose. Che senso ha aprire anche oggi?”  gli chiese.

“Qualche dollaro in più non ci farà male e i serbatoi non sono ancora vuoti. Vengo comunque ad aiutarti.”

Seguì sua moglie in casa.

“Beth ieri mi ha detto che Howard ha avuto una specie di promozione, che il lavoro in fabbrica sta andando benissimo, ed è sicura che anche tu ti troverai bene.”

Harold si limitò ad annuire.

“Devo tirare giù quella valigia da sopra l’armadio, lo so che staremo da Beth per un paio di settimane, ma più cose portiamo ora e meno ne dovremo portare poi.”

Harold si arrampicò sulla scaletta di legno e tirò giù la valigia. Margaret continuava a parlare di Beth e di suo marito, della casa che Beth aveva trovato per loro e del lavoro che Howard aveva trovato per lui e di come sarebbero stati bene a Sacramento, e del bambino che stava per nascere e del fatto che Sacramento non era come Placerville. Fino a quando il rumore di un’auto interruppe il disperato tentativo di Margaret di coinvolgere Harold.

“Vado a vedere, torno subito”.

Margaret sospirò, prima o poi lo avrebbe fatto rinsavire.  A Sacramento avrebbe ritrovato l’entusiasmo e magari sarebbe tornato ad essere il sognatore che era sempre stato. O almeno così sperava.

L’auto era una vecchia Ford Falcon bianca del 60, così malandata che Harold non si stupì più di tanto nel vedere il fumo uscire dal motore. Una donna, piuttosto giovane, era scesa dall’auto e appena si accorse di lui gli andò incontro.

“Buongiorno, mi scusi può aiutarmi? La macchina ha cominciato a far fumo ho paura sia di nuovo il radiatore. Non è la prima volta che mi succede.”

“Salga in auto, la spingo un po’ più avanti. Dobbiamo aspettare che si raffreddi”

“Grazie, lei è molto gentile” La ragazza risalì al posto di guida e Harold la spinse per qualche metro in modo da non farle intralciare altri eventuali clienti, poi aprì il cofano e aspettò che la nuvola di fumo si disperdesse nell’aria. La testolina di un bambino lo osservava dal finestrino posteriore.

“Ci vorrà molto? Devo arrivare a Sacramento e speravo di farlo entro questa mattina. Ho un’amica che mi aspetta e non vorrei si preoccupasse. In caso da qui è possibile fare una telefonata? Sono partita da Carson City molto presto questa mattina e fino ad ora era andato tutto liscio. Sa, questa è un’auto molto vecchia, ma credo lo abbia già notato da solo.”

“Sì, l’ho notato.”

“D’altra parte non posso permettermi un’auto nuova. E se continua così non potrò permettermi più neanche questo ferro vecchio. È per questo che vado a Sacramento, la mia amica dice che ci sono più possibilità di lavoro rispetto a Carson City.”

“Lei parla molto” disse Harold. Sospirò.

“Oh, la prego di scusarmi. Non ci faccio caso, ma non è la prima volta che me lo dicono. A Dave piace ascoltarmi, dice che sono divertente. Ma in effetti è l’unico che mi ascolti con piacere, credo. O almeno lo spero. Magari non mi ascolta proprio. Delle volte parlo, parlo, parlo, poi mi giro a guardarlo e mi accorgo che sta dormendo.”

Harold si girò verso il bambino che aveva intravisto poco prima e pensò dovesse essere lui Dave. Sorrideva. Harold sorrise a sua volta e gli fece un cenno di saluto con la mano. La donna continuava a parlare.

“Lui è Dave, io sono Linda.”

“Piacere Linda, io sono Harold. Comunque ora deve soltanto aspettare, poi daremo un’occhiata.”

Harold si allontanò. Si diresse verso la sua sedia cercando il sigaro nel taschino della camicia, poi si ricordò di Margaret e delle valigie e all’ultimo momento cambiò direzione ed entrò in casa.

“E’ una donna, la sua auto fa fumo, credo sia il radiatore” disse Harold a Margaret

“Beh, allora che ci fai qui?”

“Tanto c’è da aspettare che il motore si raffreddi”

“Non preoccuparti per me, ce la faccio da sola. Non mi dispiace quando hai da lavorare, basta che non ti veda su quella sedia.”

Quasi lo spinse fuori.

Harold uscì di nuovo nel piazzale. Altri clienti non c’erano, a parte la donna che ora aveva aperto lo sportello del sedile posteriore e parlava con il bambino. La voglia di tornare sulla sua sedia era tanta ma Margaret si sarebbe infuriata. Così si avvicinò all’auto.

“Spero che non sia nulla di grave” disse lei.

“Lo spero anch’io. Qualche minuto e le saprò dire meglio.”

Harold cominciò ad osservare il motore più da vicino, senza tuttavia toccare nulla.

“Aspettiamo ancora un po’”

“Mi scusi ma prima non ho capito se da qui fosse possibile telefonare”

Harold sorrise:

“In effetti non credo di averglielo detto. Comunque, sì, ancora non ho fatto staccare la linea telefonica. C’è un telefono nella tavola calda… insomma dietro quella porta a vetri.”

Linda lo guardò con aria interrogativa.

“No, è che stasera chiudiamo definitivamente. Anche noi andiamo a Sacramento, lei sarà una delle mie ultime clienti.”

Il viso di Linda si Illuminò per un istante, la ragazza quasi lanciò un urlo di gioia per sottolineare l’incredibile coincidenza, ma vedendo l’espressione di Harold si bloccò all’istante.

“Però lei non sembra molto contento”

Harold notò il repentino cambio di espressione e sorrise suo malgrado.

“Diciamo che non sto facendo i salti di gioia”

“Oh, mi dispiace, allora vuol dire che è stato costretto? Spero non sia…”

“No, no. Non sono stato costretto. È soltanto che… magari è lunga da spiegare e… lasci stare!”

Harold si allontanò con l’intenzione di prendere il suo carrello degli attrezzi semivuoto e con la voglia di allontanarsi da quella ragazza tanto importuna. Costretto? Sì che era stato costretto, in un certo senso. Ma era altrettanto vero che si era reso conto da sé che non c’era più motivo per stare lì.

Aveva perso l’entusiasmo. E con l’entusiasmo i clienti. Persino la tavola calda ne aveva risentito. C’erano dei giorni in cui non avevano potuto aprire per la mancanza di materie prime. Margaret si infuriava con lui. L’unico modo per fare la spesa era arrivare a Placerville ma Margaret non guidava e Harold preferiva starsene sulla sua sedia, a guardare l’orizzonte.

Di solito pensava ai possibili errori e a tutte le alternative possibili che prevedessero che il suo Ray fosse vivo: magari in un qualche ospedale da campo a rimettersi dalle ferite o forse prigioniero. E in quel caso sarebbe stata dura. Avrebbe dovuto aspettare la fine della guerra e chissà quanto avrebbe sofferto il suo Ray. Eppure, tutto era pur sempre meglio che morto. Perché disperso non significava morto.

Spinse il carrello attraverso il piazzale e lo piazzò davanti alla Ford bianca.

Scomparì con la testa dentro il cofano dell’auto e per qualche minuto trafficò lì dentro. La ragazza rimase miracolosamente in silenzio. Poi Harold riemerse strofinandosi le mani con uno straccio già nero d’olio.

“Non è molto grave, signorina. Dovrei semplicemente sostituire un piccolo raccordo. Il problema è che non ce l’ho.”

Una macchina si era fermata alla pompa di benzina, Harold si allontanò per dedicarsi al cliente e dopo qualche minuto tornò.

“Come posso fare allora?” Domandò Linda

“Potrei ordinarlo e farmelo portare dall’autoricambi, ma Joy non me lo porterebbe prima di pranzo”

“Non mi sembra ci siano molte alternative”

“Già! Non ce ne sono, in effetti.”

La donna sembrò riflettere qualche secondo poi disse:

“Se non le dispiace allora farei quella telefonata”

Dalla porta di fianco a quella che un tempo era stata l’entrata della tavola calda, Harold vide uscire Margaret, le spiegò tutto in poche parole e lei si offrì di accompagnare la ragazza al telefono. Quindi Harold tornò verso l’auto e cercò di riordinare alla meglio il suo carrello.

Era davvero molto tempo che non lo usava, e pensare che in passato ne andava fiero. Ora persino alcuni degli attrezzi più importanti mancavano, lasciati chissà dove in giro per la stazione di servizio ad arrugginire.

“Mi scusi signore, lei è in grado di aggiustare l’auto?”

Il bambino, quasi se n’era dimenticato. Era sceso dall’auto e lo guardava. Avrà avuto neanche cinque anni ma aveva un’aria da adulto che incuriosì Harold.

“Penso di poterci riuscire, sì. Ci sarà soltanto da aspettare un po’.”

“E come mai c’è da aspettare?” Chiese Dave.

“Beh, mi mancano delle cose che mi porteranno soltanto all’ora di pranzo” Harold era divertito e nello stesso momento imbarazzato nel dover dare spiegazioni a quel bimbo che continuava a fissarlo spiando ogni suo gesto, senza tuttavia disturbare. Non era come quel nipote del suo amico Robert, che stava lì a toccare tutto, tanto che spesso Harold doveva rimproverarlo dicendogli di fare attenzione, sperando invece che si facesse male, ma solo un poco, per carità, quel tanto da non fargli toccare più le sue cose. Dave invece sembrava ragionasse su ciò che vedeva.

“Sta mettendo tutte quelle cose grandi, come il martello e il cacciavite, tutte insieme così è più facile trovarle?”

“Sì, più o meno!”

“E come mai prima erano così in disordine?”

“Perché non sono stato tanto bravo ultimamente”

Linda e Margaret uscirono dalla porta a vetri e si avvicinarono. Harold provò un leggero sollievo.

“Visto che Linda e Dave devono aspettare un po’. Mangeranno con noi allora.” Disse Margaret.

“No, la ringraziamo ma abbiamo con noi dei panini, mangeremo quelli.”

“Oh, ascolti. Siete miei ospiti e mangerete con noi. Ho ancora tanta di quella roba che sarebbe un peccato sprecarla. Domani partiamo.”

“Sì, signora, suo marito mi diceva di Sacramento”

“Chiamami Margaret, tesoro. Andiamo da mia figlia Beth. Sta per avere un bambino, il secondo. Qui non abbiamo più niente, li invece ci sarà bisogno di un paio di nonni ancora pieni di energia”

Si era fermata un’altra auto ed Harold si allontanò.

Non gli piaceva parlare di Sacramento. Aveva ceduto alle insistenze di Margaret perché sapeva di non poter passare la vita seduto a guardare la strada vuota. Sarebbe diventato pazzo, lo capiva da solo. E Beth aveva bisogno di aiuto anche se suo marito Howard non gli era molto simpatico.

Fece rifornimento e mise in tasca i soldi pensando che ormai i serbatoi erano quasi vuoti. Il pensiero lo fece sentire triste.

Doveva sistemare ancora delle cose lì fuori, dare una riordinata alla rimessa, togliere la sedia… aveva deciso che sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.

Si era immaginato in un tardo pomeriggio, ad aspettare fino a quando il buio gli avesse impedito di vedere, e allora avrebbe salutato il suo Ray per sempre e avrebbe acceso finalmente il suo sigaro. Un po’ melodrammatico forse, ma aveva deciso che sarebbe stato il suo piccolo rito di addio, e andava fatto.

Ora però c’era da chiamare Joy per chiedergli quel raccordo. Entrò a telefonare.

“Harold, pensavo avessi già chiuso” Disse l’uomo al telefono.

“Stasera Joy, sto solo aiutando una persona in difficoltà”

“Te lo porto io appena chiudo qui”

Lo ringraziò e tornò fuori. Anche Joy ci si doveva mettere? Non faceva che discutere su qualsiasi argomento con quel montanaro, eppure il pensiero che in pratica non l’avrebbe più rivisto gli fece lo stesso effetto dei serbatoi vuoti.

Improvvisamente gli era passata la voglia di mettere a posto. Tornò dalle donne e dal bambino. Linda parlava in continuazione e Margaret sorrideva, sembrava divertita. Harold la rassicurò dicendogli che avrebbe sistemato tutto in pochi minuti poi sarebbe potuta ripartire.

“Signor Harold, lei è davvero molto gentile. Come dicevo alla signora Margaret quando ho visto il fumo mi sono spaventata, avevo passato quella grossa stazione di servizio da pochi chilometri e pensavo di dovermi fermare sulla strada; quando ho visto la sua insegna prima ho lanciato una specie di urlo, tanto che Dave si è spaventato, poi ho detto: ‘noooo’, perché credevo non ci fosse nessuno e fosse chiuso. E quando l’ho vista arrivare ho proprio pensato: ‘che fortuna!’ “

Ora capiva perché Margaret stesse sorridendo.

Un’altra auto si era fermata. Sembrava ci fossero più clienti del solito quella mattina, ma forse era soltanto un’impressione dovuta all’idea che quello sarebbe stato l’ultimo giorno.

Fece rifornimento e tornò alla Ford. Decise di iniziare a smontare tutto il necessario per portarsi avanti con il lavoro. Linda e Dave entrarono in casa con Margaret.

Di sicuro erano almeno un paio di mesi che non metteva le mani in un motore, da quando aveva sostituito le candele all’auto del reverendo Anthony. Allora aveva fatto tutto di fretta per non sentire i rimproveri sul fatto di non andare in chiesa da tanto tempo. Aveva risposto che lui in chiesa ci andava per i matrimoni e i funerali, che sua figlia ormai si era già sposata e che non credeva di doverci tornare più per qualche tempo. Poi quella sera, sulla sedia, aveva pensato che se Ray fosse tornato forse ci sarebbe andato in chiesa.

Ora nel silenzio cadenzato dal continuo passaggio delle auto sulla statale Harold si perse tra dadi e viti sporche di grasso, senza pensare ad altro che a quegli ingranaggi, a quelle cinghie, ai tubicini di gomma, e come sempre accadeva in quei momenti si sentì bene. Controllò i livelli dei liquidi, poi si ricordò di avere ancora un paio di filtri che potevano andar bene per quella Ford e decise di sostituirli.

Era talmente preso che non si era accorto del bambino che lo guardava.

“Ora che deve fare?”

“Devo cambiare il filtro dell’aria”

“E’ molto costoso? Perché non credo che mia madre abbia molti soldi”

Harold si chiese ancora quanti anni avesse.

“Non preoccuparti per quello, ne ho uno in più: è un regalo”

“Grazie signor Harold ma mia madre non sarà contenta di questo. Lei dice che non dobbiamo accettare regali da chi non conosciamo”

“Oh, beh… allora glielo farò pagare pochissimo, almeno saremo tutti più tranquilli”

Dave sembrò pensarci un secondo poi annuì soddisfatto, gli era sembrata una buona soluzione.  Harold si diresse verso la rimessa e Dave lo seguì. Al contrario di quello che gli accadeva di solito quel bambino con l’aria da grande non lo infastidiva. Pensò che fosse dovuto al fatto che gli ricordava un po’ il suo Ray, ma quella era una cosa che accadeva spesso e non perché ci fosse qualche reale somiglianza: ogni ragazzo al di sotto dei venti anni gli ricordava il suo Ray.

Trovò il filtro dell’aria sullo scaffale di metallo e lo passò al piccolo.

“Tieni, aiutami.”

Dave prese il filtro con entrambe le mani e un’espressione seria e compunta. Aveva dato molta importanza al suo compito, sembrava quasi emozionato. Seguì Harold di nuovo fino alla macchina.

“Poggialo pure lì sul carrello. E passami quel cacciavite grande con il manico rosso”

“Questo?”

“Esatto.” Rispose Harold. “Ora aspetta qui”. Si allontanò un momento e tornò con un piccolo sgabellino di legno. Lo posizionò davanti al cofano aperto della Falcon e aiutò Dave a salirci sopra.

“Ecco fatto, ora puoi vedere cosa sto facendo”

Margaret e Linda assistettero alla scena dalla finestra della ex tavola calda. A Margaret si inumidirono gli occhi. Aveva visto quella scena un milione di volte anni addietro, quando Ray aveva l’età di Dave. L’aiutò Linda a non cedere ai ricordi e all’emozione.

“Oh, mio Dio, signora Margaret. Credo che suo marito abbia reso felice Dave oggi.”

Margaret sorrise.

Fuori sembrava avessero finito di lavorare all’auto. Harold aiutò Dave a scendere dallo sgabello e gli disse di correre da sua madre. Poi gridò alle due donne che ormai c’era soltanto da aspettare quel piccolo raccordo e che avrebbe rimontato tutto in pochi minuti.

Non si vedevano altri clienti, Harold pensò di prendere la scopa e ramazzare un po’ in giro. Stava per farlo quando la realtà delle cose lo colse alla sprovvista. ‘Ma cosa sto facendo?’ pensò. ‘A cosa serve tutto questo?’ Lanciò la scopa con un gesto di stizza e subito se ne pentì. Controllò che Margaret non lo stesse guardando e tirò un sospiro. Non voleva che lei lo vedesse così. Attraversò tutto il piazzale e si accomodò sulla sua sedia, poi dal taschino sfilò il suo sigaro.

Nonostante da due anni non avesse più fumato, cambiava il sigaro periodicamente, ogni volta che si consumava un po’. Si disse che era il momento di finirla anche con quello. L’indomani sarebbe partito, avrebbe finito di guardare l’orizzonte da quel lato.

Proprio questo pensò, che fosse un problema di lato. Stava guardando dal lato sbagliato. Come se la vita scorresse in una direzione, da Est a Ovest, e lui stesse guardando ad est, verso il passato. Dave e Linda invece guardavano ad ovest, al futuro. E anche lui aveva sempre guardato ad ovest un tempo. Poi, dopo la partenza di Ray aveva cambiato direzione. Era ora di voltarsi di nuovo. Ora ad ovest c’era Sacramento, e c’era Beth, e quell’antipatico di suo marito Howard e un nipotino che se fosse stato maschio avrebbe avuto lo stesso nome dello zio. E un nuovo lavoro.  

Rimase così per tutto il resto della mattina, alzandosi di tanto in tanto solo quando un’auto si fermava a fare rifornimento. Poi arrivò l’ora di pranzo e Margaret gli disse che era pronto e che doveva rientrare in casa a mangiare.

Entrò e trovò il tavolo apparecchiato per quattro nella ex tavola calda.

Harold e Margaret mangiavano in cucina ormai da molto tempo e, da quando avevano definitivamente chiuso la tavola calda, non avevano più usato quella sala. Era evidente che in quella ultima diavolo di giornata tutto accadeva per ricordare ad Harold che un tempo in quella piccola stazione di servizio sperduta, a troppi chilometri da Placerville e da qualsiasi altro centro abitato, erano stati felici.

Si sedette su una delle due sedie libere, di fronte ai due ospiti, e dalla cucina arrivò Margaret. Linda fece per alzarsi ma la donna le ordinò di stare seduta e di non preoccuparsi. Linda sottolineava quanto tutto fosse buono e quanto fossero stati gentili con lei, Dave raccontava a sua madre tutto quello che aveva fatto all’auto.

Joy arrivò con il pezzo di ricambio, Harold lasciò un attimo la tavola e scambiò con lui qualche parola di addio. Poi si strinsero la mano e rientrò.

“Tu sbrigati a mangiare così finiamo di aggiustare l’auto” disse a Dave. Gli occhi del bambino si illuminarono.

Continuarono a mangiare, Linda disse qualcosa sulla sua amica, su come le avesse assicurato che a Sacramento sarebbe andato tutto bene e che conosceva un tale che cercava commesse per un grande magazzino. Harold ne ammirò in silenzio la forza e pensò che quello significasse guardare ad ovest. Ma lui ce l’avrebbe fatta? Sarebbe riuscito a voltarsi? E cosa avrebbe visto? Per ora sapeva che c’era Sacramento e suo genero Howard e non è che fosse così entusiasmante.

Terminarono il pranzo. Harold si alzò e Dave saltò giù dalla sedia. Uscirono e raggiunsero l’auto, l’uomo davanti e il bambino che sgambettava dietro eccitato.

“Ti piacerebbe fare il meccanico da grande?”

“Sì, credo di sì. Ma ancora devo andare a scuola, non so ancora se ci sono cose che mi piaceranno di più”

“Beh, devo dire che è molto saggio. Impegnati a scuola mi raccomando.”

“Certo! Mamma dice che inizierò dopo l’estate, e che per allora avremo una nostra casa ed io avrò una scrivania tutta per me per studiare.” Poi stettero in silenzio entrambi mentre Harold stringeva le ultime viti. Alla fine, si alzò stirandosi la schiena. Dave lo guardò dal basso verso l’alto poi, come se avesse fino a quel momento pensato a ciò che aveva appena detto e fosse arrivato ad una conclusione, gli disse:

“Me lo ha promesso! E mia mamma le mantiene le promesse.”

Ad Harold venne da sorridere e si commosse nel vedere tanta tenerezza, fiducia nel prossimo, e chissà cos’altro. Il bambino lo guardava come per vedere se avesse recepito l’informazione fondamentale che gli aveva dato riguardo a sua madre.

“Certo!” rispose infine.

L’auto era pronta. Venne il momento dei saluti. Margaret aveva lasciato a Linda l’indirizzo di Beth e le aveva detto di cercarla per qualsiasi cosa, Linda l’aveva abbracciata e ringraziata. Poi aveva abbracciato forte anche Harold che si era imbarazzato ed era rimasto in silenzio senza sapere cosa dire per quasi un minuto.   

Alla fine, partirono e i due rimasero di nuovo soli.

Margaret disse che andava a finire di sistemare la cucina e che per il resto era tutto pronto, Harold invece le disse che avrebbe raccolto un po’ di cose in giro e che avrebbe sistemato la rimessa in modo che entro la sera sarebbe stato pronto anche lui.

Erano ancora le quattro del pomeriggio, aveva rifornito un paio di macchine e i serbatoi si erano svuotati del tutto. Nonostante l’ora girò il cartello su CHIUSO, raccolse ancora qualcosa in giro e si sedette infine al suo posto pronto a celebrare il suo rito.

Margaret era ancora in casa ma era sicuro che lo avrebbe lasciato in pace. Prese il sigaro tra l’indice e il medio: finalmente lo avrebbe acceso, pensò, poi fissò lo sguardo ad est.

Provò ad immaginarsi il solito puntino nero che compariva all’orizzonte, che piano piano diventava sempre più grande fino ad assumere la forma di un uomo, e più si avvicinava più si distinguevano particolari: la sacca sulle spalle, il berretto, la divisa. E finalmente si avvicinava tanto da riconoscere…

Perché se ne accorgeva soltanto ora? Come aveva fatto a non rendersene conto fino a quel momento? E da quanto tempo accadeva?  Da quanto aveva smesso di riconoscere il suo Ray? Nella sua immaginazione la figura svaniva proprio nel momento in cui avrebbe dovuto riconoscerne i lineamenti.

Cercò di tornare indietro nei giorni: quando era accaduto la prima volta? Non avrebbe saputo dirlo in realtà. Forse soltanto oggi aveva cercato di spingersi così avanti, soltanto oggi aveva cercato di farlo avvicinare abbastanza per poterlo salutare. E non per dirgli bentornato ma per dirgli addio. Si alzò di scatto e corse in casa. Margaret lo vide passare e non ebbe neanche il tempo di chiedergli cosa fosse successo.

Harold prese la foto scattata due anni addietro, qualche giorno prima della partenza, che con la sua cornice in finto argento spiccava tra altre foto più piccole su un ripiano accanto alla dispensa. C’erano lui, Margaret, Ray e Beth. La osservò per qualche minuto poi la riposò e tornò fuori. Margaret non disse nulla.

Sedette di nuovo e riprovò ancora la scena. Stavolta il viso di Ray comparve, ma era il viso della foto, congelato in un sorriso che prometteva di tornare e che ora suonava falso. Scacciò l’immagine chiudendo gli occhi e scuotendo la testa. Quando li riaprì Ray non c’era più. Rimase immobile per qualche secondo.

“Me lo ha promesso, e mia mamma le promesse le mantiene”

Risentì distintamente la vocina di Dave rivelare quella sua verità assoluta: una mamma le promesse le mantiene! E lui aveva mantenuto sempre le sue promesse? Quelle fatte ai suoi figli, a sua moglie, magari ai suoi genitori. O magari quelle fatte a sé stesso. Quando prendiamo una decisione importante, quando scegliamo una strada da percorrere, non promettiamo forse a noi stessi di percorrerla fino in fondo?

Poi si disse che nella vita però le condizioni cambiano e che è stupido rimanere attaccati alla propria idea solo per ostinazione.

Guardò il sigaro.

Lo passò nella sinistra e con la destra cercò nella tasca dei pantaloni la scatola di fiammiferi che si era ricordato di prendere dalla cucina dopo il pranzo. Mise il sigaro tra le labbra e accese il fiammifero. Rimase con il braccio a metà a guardare la fiammella; dopo un solo istante la spense agitando la mano in aria, quindi, gettò il fiammifero per terra. Si alzò con il sigaro ancora spento tra le labbra poi lo lanciò nel grande fusto di metallo nero e arrugginito dal tempo che conteneva vecchi scarti di motori per metà annegati nell’acqua piovana.

Non era ancora il tramonto ma al diavolo il suo rito, pensò. E al diavolo quel sigaro, non fumava da due anni, non avrebbe certo ricominciato ora. E al diavolo anche quella sedia. La mise nella rimessa, rovinata ormai dalle piogge e sporca di grasso non poteva certo tornare nella tavola calda.

Era finita: ‘Ray non tornerà’, pensò

‘Basta guardare ad est, basta guardare al passato’.

Si girò verso ovest deciso a capire cosa ci fosse nel suo futuro.

Vide il piazzale, le due colonnine di rifornimento, gli espositori da riempire, e poco più in là il suo carrellino con gli attrezzi da meccanico da rifornire. Poi ancora la siepe e infine la pianura che qua e là mostrava i primi segni della primavera.

C’era anche Sacramento ma non era lì che voleva andare. Non per sempre almeno.

Rientrò in casa, Margaret aveva finito di riordinare tutta la cucina e il resto della casa.

“Margaret, stavo pensando…”

Lei lo guardò.

“Domani partiamo per andare da Beth.”

“Sì, Harold.”

“Pensavo…”

“Harold cosa devi dirmi?”

“Non accetterò il lavoro di Howard. Ti accompagno, starò con te e Beth per qualche giorno ma poi tornerò qui.

Margaret stava per dire qualcosa

“No, non parlare. Ho tolto la sedia, non ho più intenzione di stare lì ad aspettare Ray. So benissimo che non tornerà più”

Dirlo fu qualcosa di potente e terribile allo stesso tempo, sentì crescere qualcosa dentro, un groppo in gola che stava per esplodere, un solo istante e sarebbe scoppiato a piangere. Ma si trattenne all’ultimo e riprese con uno sforzo il controllo della voce.

“Approfitterò della tua assenza e farò un po’ di lavori in casa. Ridipingerò, aggiusterò le imposte e poi sto pensando che, una volta tornata, potresti imparare a guidare.”

Margaret stava per ribattere qualcosa ma aveva appena riconosciuto qualcuno che non vedeva da circa due anni. Sapeva che sarebbe stato inutile parlare, lo abbracciò forte.

Harold ricambiò l’abbraccio e sentì le prime lacrime solcargli le guance, un istante dopo singhiozzava stretto tra le braccia di Margaret.

Piansero insieme.

  Avevano ancora gli occhi umidi quando uscirono fuori. Si stava bene anche se stava rinfrescando un po’ con il sole che piano si avvicinava all’orizzonte.

Rimasero a guardare il tramonto. Lo sguardo finalmente rivolto ad Ovest.