Buongiorno Aureliano

10. Il caduto

Foto di Karsten Paulick da Pixabay

“Scusi, c’è Alberto?”

Il suono della voce gli era arrivato attenuato dalle strisce di plastica della tenda che separava la vendita dal laboratorio, tuttavia era stato sufficiente a fargli mancare per un attimo il respiro. Rimase in attesa con un pugno di farina davanti al piano di acciaio. Subito dopo la voce di suo padre.

“Albertoooo”

Riprese a respirare, lasciò la farina e batté le mani tra loro e poi sul grembiule, quindi uscì ostentando una tranquillità che era lontano dall’avere. Non si era sbagliato, la voce era quella di Cleopatra, la figlia del suo professore di ripetizioni che aveva conosciuto due giorni prima e alla quale, da allora, si era trovato a pensare con troppa insistenza.

“Se devi lavorare passo un’altra volta” disse lei.

Alberto guardò suo padre che fingeva di essere occupato a spostare dei filoni di pane da un ripiano all’altro, ma che in realtà sembrava molto più interessato alla scena insolita di una ragazza che parlava con suo figlio. A dimostrazione di ciò, il cenno di assenso che liberava Alberto dal suo impegno arrivò prima che lui potesse aprire bocca. Del resto, aveva già cominciato a slacciare il grembiule.

Pensava di aver fatto un figurone a farsi trovare così. Gli sembrava di avere un’aria molto più matura. Un colpo di fortuna.  Pochi istanti ed erano già fuori.

“Sei sicuro che non ti ho disturbato?”

“Avevo finito”, disse lui, “Il pomeriggio aiuto sempre un po’ mio padre. Più che altro imparo.” Aveva pensato di impressionarla con qualche piccola bugia ma poi gli era venuto spontaneo essere sincero.

“Bello”, concesse lei, poi, come se volesse trovare una giustificazione, aggiunse: “A casa mi annoiavo.”

“Hai fatto bene a passare. Sediamoci da Cesare, tra un po’ arrivano i miei amici così te li presento”

“No, se non ti dispiace io volevo camminare un po’. Ti va?”

Alberto alzò le spalle, mise le mani in tasca e disse: “Andiamo”. Sperò di essere sembrato sufficientemente naturale, si inumidì le labbra troppo secche.

Lasciarono la piazzetta, attraversarono la strada e salirono le scale che portavano alla piazza grande, davanti alla chiesa.

“Hai mai visto il castagno?”

“Veramente non ho visto niente, sarà la seconda volta che vengo in questa piazza.”

“Scusa, ma da quanto tempo sei a Borgovecchio?”

“Due anni, ma sto sempre a Roma, praticamente.”

“Peggio per te”, azzardò lui, “non sai cosa ti perdi.”  

Alberto prese la strada che dalla piazza saliva verso quella parte del paese che tutti chiamavano “il Colle”, lei camminava un passo dietro di lui. Il fiato corto procurato dalla salita forniva una buona scusa per limitare le parole, ma non durò che qualche minuto. L’asfalto ruvido e sconnesso, poi le ultime case, e con esse Borgovecchio, si persero alle loro spalle e la strada divenne una mulattiera pianeggiante e assolata.

Il castagno era lì, poco più avanti, una cupola imponente che a giugno sembrava come impolverata da fiori bianchi e che proiettava la sua ombra fino alla strada. Alberto si avvicinò al grosso fusto e lo salutò dando pacche sulla corteccia come alle spalle di un vecchio amico. Spiò l’espressione di Cleo senza indovinare uno solo dei suoi pensieri.

“Eccolo qua, ti piace?” le disse. Aveva l’aria di avercelo messo lui lì, quel castagno.

“Si, bello. Però voglio stare al sole, ci sdraiamo laggiù?”

Rimase deluso dalla reazione di lei ma decise che in fondo del castagno non gliene importava così tanto. Lei andò a sedersi sull’erba.

“Oh! Vieni?”

Da una piccola borsa colorata, che portava a tracolla, tirò fuori un walkman, mise un solo auricolare tenendo l’altro tra le dita aspettando che lui le si sedesse a fianco e lo mettesse a sua volta.

Lui lo fece. Gli tremavano un po’ le mani a sentire il buon odore di lei così vicino, chiuse gli occhi per guardare il sole e scottarsi la faccia e la cosa funzionò, sentì di recuperare un po’ di calma.

“Vieni giù” disse lei. Rimasero così sdraiati nell’erba alta, con le teste quasi attaccate, agganciate per l’orecchio alle note di un’armonica e alla voce calda e profonda di Guccini. Poche frasi e qualche ritornello cantato insieme.

“Fumi?” chiese lei tirando fuori un pacchetto di Chesterfield.

“Faccio un tiro” rispose.

Cleo si accese la sigaretta, poi, tenendola tra le dita l’avvicinò alle labbra di lui. Alberto aspirò il fumo e non riuscì a trattenere un colpo di tosse. Lei rise ma non disse niente. Prima che finisse la sigaretta gli fece fare un altro tiro, stavolta ebbe più successo.

Tutto quello che Alberto, la sera nel suo letto, riuscì a ricordare fu il calore del suo braccio morbido appiccicato al suo e le dita di lei sfiorate con le labbra. Non pensava. Era stato tutto il resto del tempo a ricantare quelle canzoni nella testa.

Maurizio e Ale li avevano incontrati quando erano tornati alla piazzetta e lei aveva già detto di dover tornare a casa. Alberto aveva fatto le presentazioni e i ragazzi si erano scambiati soltanto un ciao. Poi lei era sparita dietro l’angolo della strada ed erano cominciati gli spintoni di Maurizio.

“Ma è la figlia del professore? Hai capito Alberto!” disse.

“Oh, racconta” aggiunse Alessandro

Alberto alzò le spalle.

“Ma non c’è niente da raccontare, siamo stati al castagno, abbiamo sentito della musica e chiacchierato. A lei piace un sacco Guccini”

“Pensa che cojoni!” disse Maurizio

“Va beh, ma avete parlato?” chiese Alessandro

“Un po’”

“E allora racconta”

“no, vado a casa. Vedo se riesco a fare qualche esercizio prima di cena, oggi non ho fatto niente e mio padre poi rompe”.

Non aveva mentito ai suoi amici, gli era sembrato che a parlare di quell’incontro sfuggissero via tutte le sensazioni che aveva accumulato durante il pomeriggio e che ora cercava di rivivere nel tragitto che lo riportava a casa. Fare qualche esercizio di matematica in vista della prossima lezione con il professore era la cosa più naturale che potesse fare per sentirsela ancora un po’ vicino.

“Che hai fatto?” Chiese sua madre, “Sembri stralunato”.

“No, niente. Perché mi dici che…”

“Ma come ti sei combinato?” Lo interruppe lei indicandogli i pantaloni con espressione inorridita. “Hai tutti i pantaloni macchiati di verde. Ti sei seduto sull’erba, no?”

Alberto si guardò senza rispondere.

“Adesso per farlo andare via è un macello. Levateli. Dammeli. Ma io dico non hai mica dieci anni, non riesci a stare attento?”

Conosceva tutto il repertorio di sua madre per queste occasioni: secondo lui esagerava la difficoltà nel pulire il tipo di macchia, in quel caso d’erba, per mostrare poi quanto fosse brava a farla sparire. Aveva lavorato in una tintoria per tanti anni, da ragazza, come diceva lei, ed andava fiera delle sue abilità. Alberto pensava dovesse scrivere un libro sull’argomento.

“L’erba non viene via, quelli sono da buttare…”  Continuava a borbottare sua madre, ma non era che un sottofondo, già non la sentiva più.

Entrò in camera sua, si sfilò i pantaloni e si ritrovò a passare le dita su quelle macchie di verde, chiedendosi se anche lei ne avesse avute di simili sui suoi jeans e se anche sua madre ora le stesse rompendo le scatole. Le professoresse facevano le lavatrici come le persone normali? Un dubbio sul quale avrebbe dovuto indagare prima o poi.

Rimase così, in boxer, infilò il cd nel radioregistratore e si sdraiò sul letto ad ascoltare ancora e ancora.